L’aspetto che ti colpisce di più di Luca Barbareschi è l’entusiasmo. Allegro, sorridente, solare, tutto sommato un ragazzone con lo sguardo di chi sogna e anche quello un po’ furbetto di quei bambini che, se possono, combinano qualche marachella. E di cose Barbareschi ne ha combinate parecchie, tante che è impossibile riassumerle in poche righe, tra teatro, tv, cinema, imprenditoria informatica, politica. Un caso più unico che raro di iperattivismo, non solo per l’Italia, ma nel panorama mondiale. È gentile, addirittura premuroso quando chiede di abbassare la musica al concierge dell’hotel dove lo incontriamo, non sia mai che poi la registrazione dell’intervista non venga “pulita”. Quando parla del suo Something Good (leggi la recensione), un thriller sul business dei cibi contraffatti che ha prodotto, scritto, diretto e interpretato, si capisce subito che ci crede molto.
Best Movie: Sei appena tornato da una presentazione del film in giro per il mondo… Los Angeles, Hong Kong, Honolulu. Com’è andata?
Luca Barbareschi: «La battuta più frequente è “non sembra un film italiano”. Il che mi dispiace perché una volta “film italiano” era motivo di vanto. Purtroppo negli ultimi 20 anni ha assunto tutt’altro significato. Questo aspetto è un vantaggio e uno svantaggio. Per esempio non è un film per certi Festival, quelli che vivono il cinema italiano come una cosa povera, triste e cupa. Che poi sono gli stessi festival che per esempio escludono la commedia a priori, uno sbaglio secondo me perché anche la commedia è rappresentativa di uno stile. Something Good è un film internazionale, girato in 4k, con cast non italiano. Ho fatto un test a Los Angeles a luglio: in sala c’erano David Seidler, quello del Discorso del Re, David Mamet, Nancy Meyer, la regista di È complicato, Steven Spielberg. Il mio film è costato 4 milioni di euro. Quando lo hanno visto gli americani pensavano fosse da 20. È un film di genere e tratta di temi eterni».
BM: Per esempio?
LB: «L’assunzione di responsabilità. Da quando ho l’età della ragione l’ho visto fare solo una volta. Da Cusani. Quello della maxi tangente Enimont. Andò in galera e si fece 5 anni. Ci fu un momento in tv dove lui disse: “Sì è vero, ho fatto delle cose sbagliate, me ne assumo la responsabilità e adesso scusi la devo lasciare (stava facendo una intervista, ndr) perché devo andare in galera”. È l’unico caso che ricordo di un uomo che ammette di aver sbagliato e paga la sua colpa. L’ho trovato un gesto da tragedia greca meraviglioso».
BM: Lo racconti per il tema della redenzione presente in Something Good?
LB: «L’assunzione della responsabilità per me è importante più ancora della redenzione o del pentimento. Io non vedo più in tv da anni uno che dica: “È colpa mia”. Soprattutto a causa della politica che è il cancro della cultura occidentale. Dal momento che si è creato questo distacco con la responsabilità si è perso quello che nella vita è l’epos del racconto. Dove c’è epica? Dove c’è tragedia. E dove c’è tragedia? Dove c’è assunzione di responsabilità. Altrimenti è farsa. È grottesco. Questo è un Paese che è diventato grottesco, un Paese da farsa. Parmenide diceva: «Alétheia e doxa». “Doxa”… ormai la gente pensa che sia una società di indagini di mercato. Alétheia è la verità e Doxa in greco vuol dire opinione. La verità c’è, esiste. Se si prescinde da questo, anche la scrittura del cinema perde forza perché diventa sempre farsa, gli attori non hanno mai tragicità, non c’è mai il conflitto vero».
BM: Something good è tratto da un libro…
LB: «Ho avuto l’ispirazione dal libro di Francesco Abate e Massimo Carlotto Mi fido di te, di cui non è rimasto praticamente nulla nel film. L’unica ispirazione per cui ringrazio è l’idea della sofisticazione alimentare. È un bellissimo libro, molto divertente. Ha avuto un iter curioso, perché molti hanno tentato di farne la sceneggiatura e si sono incastrati. Il libro funziona molto bene perché ha un “io narrante” divertente, ma che al cinema sarebbe una forzatura. È un noir grottesco dove tu stai dalla parte di un farabutto, ti diverti perché è uno che uccide tutti. Anche Riccardo III fa delle cose tremende, ma Shakespeare crea empatia perché l’autore tira fuori il Riccardo III che c’è in ognuno di noi. Per cui l’ho riscritto con Francesco Arlanch e Anna Pavignano ed è venuto un film di cui sono molto soddisfatto».
BM: Torniamo al cinema italiano: su Best Movie abbiamo diversi blogger che sono giovani registi emergenti, ma spesso sono scoraggiati proprio dal nostro sistema cinema…
LB: «Perché non c’è un’industria. Il cinema italiano non cresce prima di tutto per mancanza di dinamica onesta. La tragedia di questo Paese è che a furia di difendere i soliti noti nei Festival e anche nelle situazioni produttive non si va da nessuna parte. Si sono continuati a dare soldi per fare film a gente che forse al secondo bisognava fermarli. Non c’è mai una dinamica sportiva sana. A me non piace perdere ma la competizione deve garantire una certa parità, non uno che gira in Ferrari e un altro col motorino. Bisogna fare una riflessione seria e magari far lavorare le persone perché hanno talento, non perché sono di destra o di sinistra».
BM: È tutta una questione politica?
LB: «Le vorrei far leggere la critica che ha scritto il povero Morando Morandini su Ardena, che è un film molto sentimentale. Ha scritto che è un film fascista e altre cose che non c’entrano nulla. Sono venuti a boicottare l’entrata del cinema al Barberini di Roma perché avevo girato una parte del film a Calcata, un paese stupendo sospeso nella nebbia. Leggevo cose che non ci potevo credere: “Il fascista Barbareschi deflora Calcata, patria anche di Amanda Sandrelli”. Questo è un Paese dove elogiano Nanni Moretti anche se scoreggia e lui li insulta e fa benissimo e lo invidio molto. “Siete dei coglioni andate a fanculo”: divino. Fa dei film per me inguardabili. Film intelligenti, perché Nanni è molto intelligente, ma cinematograficamente per me è d’oro la battuta di Risi: “Quando si sposterà Moretti, vedrò il film finalmente”. Lo uccise con il suo umorismo. Non si può premiare a Cannes Caro Diario e ignorare Una pura formalità, che forse è uno dei film più geniali di Tornatore, anche se difficile. Ma sa perché hanno ignorato Tornatore? Perché osò dire a Cannes: “La smettiamo di parlare di chi è pro o contro Berlusconi? Parliamo di cinema per favore?”. Risultato? Cahiers du cinéma dedicò 9 pagine più copertina a Nanni Moretti titolando: “L’uomo che ha detto no a Berlusconi”. E Tornatore non è neanche uscito in Francia. Questa è una guerra imbecille. Cannes è una buffonata. I Festival? Una truffa».
BM: In che senso?
LB: «Perché sono finti. Vincono sempre gli stessi. E poi troppi festival in Italia. In Francia ci sono i Cesar e i Moliere, cinema e teatro. In America gli Academy awards e i Tony. Qua abbiamo 100 festival, tutti scollegati dal rapporto col pubblico. Quest’anno a Venezia c’erano dei film che nessuno andrà a vedere. Da imprenditore – sono un signore che ha un’azienda che ha girato tra una cosa e l’altra in dieci anni forse 4-500 milioni di euro di fiction – voglio sapere: a cosa servono questi festival? Quando guardi gli Academy e vedi in competizione i quattro best actor per esempio, a me vien da piangere su ognuno perché tutti fanno delle performance pazzesche. Parlano il linguaggio delle emozioni che è l’unico linguaggio intercontinentale. Infatti una nomination a un Academy award cambia del 10% il botteghino in tutto il mondo. Ci sarà una ragione per cui nessun film che vince il Leone D’Oro incassa. Neanche il pubblico ci casca più».
BM: A proposito di box office: il tuo film precedente, Il trasformista, ebbe un’ottima critica, ma incassi miseri…
LB: «Uscì in 30 sale! La distribuzione non ci ha creduto perché il primo week end è partito lento e allora lo hanno levato».
BM: Qui la politica non c’entra nulla? Il tema è scottante, fotografa l’attività politica e parlamentare in modo sconfortante…
LB: «No, fu proprio imbecillità della gestione. Il film di Sorrentino che aveva già vinto prima di iniziare qualsiasi cosa, lo hanno tenuto in giro anche con sei spettatori a sera e alla fine ha fatto 6 milioni di euro. Non è che ha fatto chissà cosa. Quando Nuti incassava faceva 50 miliardi di lire. Non è detto che la gente si butti nei cinema subito».
BM: Come siamo messi con la distribuzione adesso?
LB: «Adesso non posso lamentarmi, Something Good esce in 240 copie. È lanciato come un film di genere. Abbiamo anche qualche sala che lo proietta in inglese per il pubblico raffinato. Il film mi pare riuscito, ora c’è la prova del pubblico. Nella mia vita non mi ha mai regalato nulla nessuno e in questo paese se possono mi menano. Se il film incassa, penso di avere una bella carriera davanti a me per il cinema, che è una cosa che mi piace fare. Teatro lo faccio benissimo da anni. Sarà importante l’incasso in Italia e la vendita all’American Film Market».
BM: Quindi, tornando ai giovani che vogliono fare cinema in Italia, cosa gli consigli?
LB: «Ho scritto il primo film che avevo 19 anni, Summertime, che vinse un premio a Venezia (nel 1983, nella sezione De Sica, vincendo il premio per la migliore opera di esordiente, ndr). Sa perché l’ho scritto? Un giorno andai a fare un’intervista a Steven Spielberg – per guadagnare facevo dei servizi per la Rai all’epoca. Spielberg era a casa che montava Incontri ravvicinati del terzo tipo. Lo guardai e pensai: “Questo ha già fatto Duel, Sugarland Express, Lo squalo, ha 29 anni, è simpatico da mangiarlo”. Era lì che giocava a scacchi da solo su una macchinetta tipo computer che gli aveva regalato Lucas e io gli ho chiesto: “Come faccio a diventare come te?”. Una domanda infantile in fondo. E lui mi ha detto: “Hai ragione. Fai come faccio io. Prenditi 10 mila dollari, un po’ di pellicola, scrivi una bella storia, e buttati”. Tornai a casa e scrissi il mio primo film, Summertime. Raccontai la storia di uno che arriva a New York con la fidanzata e si innamora di un trans. Per quegli anni era un tema esplosivo. Lo girai in presa diretta con una troupe di 6 persone, sei amici».
BM: OK, buttarsi, e poi?
LB: «La Cavani mi disse una cosa molto intelligente un giorno: quello che rimprovera ai giovani è che non hanno ambizione. Essere regista non è solo saper scrivere e dirigere. Convincere Zhang Jingchu che è una star cinese o Kenneth Tsang che è il Marlon brando della Cina o Gary Lewis che è un signore che ha avuto una nomination agli Oscar a lavorare con te non è semplice. Vuol dire che tu ti sai proporre e sai anche imporre la tua leadership creativa. Nella mia vita più ho alzato l’asticella e più la mia conoscenza, la mia creatività e la mia capacità di gestione, di riflesso sono cresciute. Anche per questo è importante per me fare un film internazionale».
BM: Tre film italiani recenti che reputi interessanti?
LB: «La migliore offerta di Tornatore, un’ottima operazione internazionale. Trovo molto bravo Muccino con quello che fa in America. Chapeau. Bisogna “sprovincializzarsi”. Quelli bravi lo hanno sempre fatto. Zeffirelli, tanto preso in giro, però a 30 anni già dirigeva Richard Burton e Liz Taylor. E Checco Zalone. È un ragazzo intelligente. Lo invidio in maniera sana: è riuscito a fare un film in cui prende in giro gli arabi, senza offenderli, e a farlo politicamente scorretto».
BM: Della tv che ne pensi? In Usa ormai la fiction televisiva se la gioca con il cinema in quanto a qualità di intrattenimento…
LB: «Quando dicono che il cinema italiano è morto per colpa della fiction sono pazzi: il cinema italiano è migliorato grazie alla fiction. Non solo: migliorerà e soprattutto i beniamini della fiction ormai portano pubblico al cinema e non viceversa. Credo di essere riuscito a fare un film come Something Good grazie alla televisione. Negli ultimi 7-8 anni, avendo prodotto molta televisione, affronto le strutture narrative come dei prodotti che devono piacere a un preciso tipo di pubblico. Non posso prescindere dallo spettatore. In questo aspetto la tv ti aiuta perché ti insegna a confezionare un prodotto per un pubblico specifico. Sono riuscito a fare successi facendo Walter Chiari, che sulla carta uno dice: “Cos’è? Un comico, bigamo, cocainomane, che è andato in galera?”. Fare su Raiuno 7 mln e 27% di share vuol dire aver imparato a raccontare anche una storia controversa ma tenendo conto che il pubblico la deve poi dover fruire. L’ho fatto con Edda Ciano e il comunista, con l’Olimpiade nascosta. Lo sto facendo adesso con Adriano Olivetti (leggi l’approfondimento). Olivetti non lo voleva fare nessuno, perché nessuno riusciva a immaginare Olivetti come ce l’ho avuto io in testa. Cioè un grande romanzo popolare sull’economia italiana. Così lo abbiamo declinato. La gente quando ha visto i trailer si è commossa, ha detto “pazzesco”. Io gli ho risposto che era già così prima. Semplicemente ci siamo posti il problema del pubblico, di come raccontare una storia e a chi».
(Arriva il cameriere con due sandwich al salmone). BM: Ma come, non mangi ebreo? In Something Good mi è rimasta impressa la battuta: “Preferisco che siano i rabbini a controllarmi il cibo”…
LB: «Sono ebreo e in quella battuta mi prendo in giro… Sono abbastanza attento con l’alimentazione. La cultura del cibo è cresciuta negli ultimi 10 anni soprattutto in Europa. C’è un problema reale a livello mondiale e nei paesi più poveri dove speculano non solo banditi e delinquenti come nel mio film, ma anche le multinazionali. È una filiera che io non conoscevo, sono pochissimi gli operatori che gestiscono il food nel mondo, meno di dieci. La Philip Morris, a cui fa capo la Kraft, Nestlé e altri. Hanno avuto un attacco forte dal ministero della salute americano perché c’è una crescita esponenziale di diabete: prevedono 40 milioni di diabetici nei prossimi dieci anni. Hanno detto di poter cambiare tutta la catena industriale del cibo, però per fare qualità e diversificazione devono licenziare qualcosa come 100 mila persone. Allora è intervenuto il ministero dell’economia che sta discutendo con quello della salute ed è tutto in stallo. Dal punto di vista tattico per le multinazionali è stata una mossa furba. Un po’ come l’Ilva: fa venire il cancro, ma gli operai scioperano per non essere licenziati e perché non si chiuda».
BM: Anche il protagonista di Something Good ragiona tirando in ballo “il meno peggio”…
LB: «… “Meglio il latte di gesso che morire di fame per i bambini africani…”. C’è un libro bellissimo che si intitola Salt Sugar Fat, del premio pulitzer Michael Moss, dove si dice che “tutti si lamentano del cibo, ma l’età media di vita è in crescita”». Non è alla Michael Moore, “bombarolo”, è un libro che dà dei dati e delle statistiche».
BM: Ad agosto hanno creato il primo hamburger artificiale da cellule staminali…
LB: «Domani si potrà fare tutto e il tema del cibo diventerà molto simile a un tema etico».
BM: Segui diete?
LB: «Mangio tantissimo alla mattina poi a mezzogiorno un’insalata, uno spuntino e poi la sera se posso un brodo, cose che non fermentino. Per una ragione anche oggettiva: alla mia età il metabolismo si va a fermare per cui se mangi la sera ingrassi. Sono mattiniero: mi sveglio alle 5:30 da sempre, faccio 40′ di camminata veloce un po’ di pesi leggeri o un po’ di yoga. Poi ho fame che mangerei la pasta. Quindi mangio di tutto, uova, formaggi, comunque cose buone e sane».
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