Marco D’Amore, il celebre Ciro della serie Gomorra (la cui quarta stagione si vedrà nei primi mesi del 2019 su Sky), approda a Lucca Comics 2018, al Cinema Astra (in piena Area Movie), per una masterclass moderata dal giornalista Gianmaria Tammaro. E anche se si schermisce immediatamente, dicendo di «non sentirsi un maestro, quanto piuttosto un discente», il modo in cui articola la chiacchierata, parla degli strumenti del mestiere e del suo passaggio da attore e regista, ha lo spessore e l’intensità di uno che a 38 anni, dopo 23 anni dedicati al mestiere, potrebbe davvero insegnare moltissimo a chi volesse intraprendere la carriera da attore.
«Ho iniziato a 15 anni con degli amici a rifare i classici del teatro napoletano. A 18 ebbi la fortuna che Toni Servillo, quando non era ancora il Servillo di Le conseguenze dell’amore, del Divo e così via, mi scelse per un suo spettacolo teatrale. Gli devo tantissimo».
Dopo quell’esperienza D’amore decide di lasciare l’università e di fare la gavetta teatrale, frequentando l’Accademia teatrale: «Senza voler essere melodrammatico, è stato un percorso pieno di fatica e sacrifici. Per questo divento quasi violento quando vedo persone che considerano la recitazione come uno sfogo di vanità, perché io ho tutta un’altra visione del mio mestiere».
L’attore napoletano ha poi raccontato della svolta con Gomorra, definendola «una svolta professionale e di vita. Non ero interessato alle serie tv e, anzi, ho sempre guardato con un certo snobismo la tv e il cinema. Poi, ho ricevuto una telefonata da Stefano Sollima, che mi aveva visto in Una vita tranquilla, e ho deciso di partecipare. Per me Ciro è un personaggio complesso al pari di un Otello o un Amleto, perché capace di toccare vette altissime e abissi profondissimi».
Ma non è stato solo il lato attoriale a fare di Gomorra un’esperienza formativa per D’Amore: «Ho potuto partecipare a una grossa macchina produttiva, con 35 settimane di girato all’anno, aerei da prendere eccetera… È stato il viatico per chiedere alla produzione di poter passare dall’altra parte della macchina da presa. Del resto non mi sono mai accontentato di recitare le mie battute e ho sempre contribuito alla costruzione de mio personaggio, atteggiamento che ha sempre colpito i registi della serie».
D’amore ha poi affrontato il tema delle numerose critiche fatte alla serie per via dei presunti messaggi morali e dei modelli negativi proposti dalla serie, spiegando: «Non è vero che no sentiamo la responsabilità morale. Io ho un’attitudine che mi fa ridimensionare, però, quello che faccio. Una serie ha il dovere di scuotere, di porre degli interrogativi. Non si può chiedere a un film, una serie o un romanzo, di offrire delle risposte a problemi così gravi. In italiano di dice recitare, ma in inglese dice play e in francese jouer, che significano entrambi giocare».
L’interprete ha poi spiegato meglio le ragioni che lo hanno spinto a passare dietro la macchina da presa: «Io non mi sono mai arrapato per una parte. Mi interessano sempre di più i temi e le storie. Mi piace anche la diversità dei ruolo: l’attore è un centometrista, che a volte in 50 secondi deve dare il meglio di sé. Il regista, invece, è un maratoneta, che parte dal pensare alle location e finisce in sala di montaggio. Sono anche stato contento di sfatare alcune delle previsioni che mi avevano fatto: “Ti remeranno tutti contro”, “La macchina è gigante” e così via… Io, invece, sento di aver trovato il mio posto e il mio ruolo».
Interrogato poi sull’uso non banale che fa dei social per veicolare cultura, ha raccontato: «Ho letto uno stralcio di M. Il figlio del secolo, romanzo su Mussolini, e mi sono ritrovato 150 messaggi di ragazzini che mi leggono un pezzo de I promessi sposio di qualche altro romanzo. Questo è l’utilizzo che mi sento di fare dello strumento social. E mi fa inorridire il fatto che l’attuale Ministro per i Beni culturali abbia definito il Grande Fratello un prodotto culturale. C’è una linea di demarcazione netta tra intrattenimento e arte. All’estero c’è, da noi è tutto mescolato: prosa, musical, balletto, teatro di ricerca… Il Grande Fratello è sub-cultura, sub-intrattenimento e dire il contrario è preoccupante».
D’Amore si scaglia anche contro cinema e Tv, che per anni non si sono preoccupati di fare formazione, mettendo in scena dei “figuranti” senza mestiere. E si dice contento che negli ultimi anni le cose siano cambiate: «Questo è un mestiere difficilissimo, in cui si vivono le vite altrui, le sofferenze altrui. Bisogna fare uno studio approfondito su se stessi e conoscere i mezzi del mestiere, per riuscire a entrare nella coscienza e nella “panza” della gente. Bisogna studiare tantissimo, sapere come si porta la voce per arrivare a farsi sentire in fondo alla sala, magari spezzandosi la voce, affaticando le corde vocali. Non come quelli che dopo un’ora che stanno sul palco chiedono l’archetto, perché non ce la fanno più».
La masterclass si conclude sulla scena madre che ha visto protagonista D’amore insieme al collega/amico Salvatore Esposito (Genny Savastano nella serie), ovvero la morte di Ciro.
«In quella scena c’erano i 15 d’anni d’amicizia di Genny e Ciro, ma anche i sei miei e di Salvatore. La nostra amicizia così stretta aveva stupito anche Sollima e gli altri. All’inizio i nostri personaggi non dovevano essere così, ma il nostro rapporto li ha costretti a riscriverli, trasformando la nostra in una love story. E quando abbiamo girato la scena della morte di Ciro eravamo solo io e lui in una barca in mezzo al mare, alle 3 di notte. Io gli ho messo le cuffie alle orecchie con la musica di Gomorra, quasi fosse la scena del lento del Tempo delle mele. E ci siamo messi a “chiagnere”. E dentro quel mare di lacrime c’erano i nostri personaggi e c’eravamo noi».
Lucca Comics 2018, Marco D’Amore: «Alla morte di Ciro io e Salvatore abbiamo versato un mare di lacrime vere»
L'amatissimo attore della serie Sky Gomorra ha incontrato il pubblico nel corso di una masterclass in cui ha dimostrato l'enorme passione per il mestiere d'attore e regista, oltre ad aver raccontato dettagli molto intimi dal set