Doctor Sleep è il sequel dichiarato di Shining ed effettivamente lo è in senso narrativo e iconografico: il film riprende i personaggi del film di Kubrick e l’estetica dell’Overlook Hotel, e sviluppa la storia di quel film mettendo al centro della scena il piccolo Danny, ormai cresciuto e passato attraverso la dipendenza dall’alcool. Quarant’anni dopo i fatti del primo lungometraggio lo ritroviamo infatti infermiere in una clinica per anziani: qui la luccicanza lo porta ad assistere e confortare i pazienti nelle ore che precedono la morte, da cui il soprannome Doctor Sleep.
Nel frattempo scopriamo l’esistenza di una misteriosa setta di vampiri-hippie che rapiscono e uccidono i ragazzini dotati degli stessi poteri di Danny per “cibarsi” della loro luccicanza. Alla fine ovviamente sarà proprio l’ultimo dei Torrance, insieme a una ragazzina che ha i suoi stessi talenti, a doverli fermare, ritornando in quell’hotel maledetto in cui tutto era cominciato.
Il paradosso di Doctor Sleep è che pur legandosi sfacciatamente all’immaginario kubrickiano, è un’operazione che ribalta lo spirito di Shining sotto molti aspetti, rimanendo fedele al romanzo. Il più importante è che sostituisce alla minaccia, metafisica e inafferrabile, del film di Kubrick una squadra di villain variopinta e molto concreta: è chiaro chi si sta combattendo e perché. L’altro, fondamentale anch’esso, è che al centro della narrazione ci sono due personaggi positivi – non certo un antieroe in preda a una follia dilagante -, una dei quali sembra più l’eroina di un cinecomic (la luccicanza usata come un superpotere contro i cattivi) che la protagonista di un horror.
È tutto molto kinghiano e molto rassicurante, siamo in sostanza di fronte a un film per ragazzi che segue regole diffuse e molto contemporanee (usate soprattutto in generi diversi da quello che dichiara), lontano dalle dinamiche e dalla libertà del cinema d’autore e da Festival. Questo è molto evidente anche nella scrittura, che sottolinea ogni passaggio, mettendo in bocca ai personaggi dialoghi che ne esplicitano mosse e ragioni.
C’è un elemento che rende questo rapporto duplice di parentela e negazione esemplare, ed è la scelta di rimettere in scena Jack, Wendy e perfino il giovane Danny Torrance rispettando colori, costumi e pettinature del modello kubrickiano, ma prendendo attori diversi a interpretarli, invece di usare la computer grafica per ringiovanire i vecchi interpreti (o rimetterli in scena ex novo, ma completamente digitali). In pratica la scelta opposta a quella fatta da Scorsese in The Irishman. Per figurarvela dovete immaginarvi ad esempio un prossimo prequel di Star Wars in cui a interpretare la giovane principessa Leila fosse un’attrice nuova ma somigliante a Carrie Fisher, pettinata e vestita come Carrie Fisher nei film di Lucas: l’effetto è straniante.
Ecco, in questo desiderio di abbracciare e al contempo negare il capostipite, di rispettare il Doctor Sleep di Stephen King e ottenere l’approvazione dello scrittore (legandosi però formalmente a un film che lo scrittore ha sempre detestato), c’è tutta la sostanza di un’operazione affascinante ma contraddittoria, che probabilmente piacerà più al pubblico giovane e inconsapevole dei vari The Conjuring, o agli appassionati di serialità supereroistica, che non ai nostalgici di un maestro e di un’epoca irripetibile.
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