Cappello da texano in testa, felpa blu di Donald Duck sopra una camicia a scacchi e quel piglio deciso di chi ne ha viste tante e ora è pronto a togliersi qualche sasso dalla scarpa: Don Rosa è arrivato a Lucca Comics 2019 dopo 24 anni dalla sua ultima visita alla città toscana per incontrare i suoi fan e ricordare al mondo che il volto, la matita e il cuore dietro a Paperopoli sono i suoi.
Erede di Carls Barks, Don Rosa ha scritto e disegnato le storie con protagonisti Paperon de’ Paperoni, Paperino e tutta la famiglia dei Paperi per oltre vent’anni, finché la partnership con Disney si è interrotta e lui si è ritirato in pensione con la moglie in una casa piena di oggetti da collezione di ogni tipo e con un giardino di cui ama occuparsi. Tranne che in autunno, quando prepara la valigia e trascorre qualche mese nelle fiere più importanti del mondo per firmare autografi e vendere le sue tavole originali.
Le sue storie fanno parte dell’infanzia di tante generazioni. Lo sapeva che Disney le ha reso omaggio anche citandola nella nuova serie dei Ducktales?
«Ho visto alcune puntate dello show ma non mi sono piaciute molto perché come intrattenimento per i bambini l’ho trovato troppo eccessivo e bizzarro. Vedo molta differenza comunque tra come vengo accolto qui in Europa e da quello che succede in America quando vado a fiere di questo tipo. Oggi qui a Lucca ci sono trecento persone che aspettano in coda sotto la pioggia per un mio autografo. Negli Usa al mio stand sono fortunato se viene una persona ogni 15 minuti e in più in pochi sanno cosa ho fatto. Ci sono persone che non sanno che Paperino e Paperone, prima di essere i protagonisti di una serie Tv, sono stati dei fumetti. E questo è molto triste. stand ne verrà uno ogni quindici minuti e in pochi sanno che cosa ho fatto. Ci sono persone che non sanno che paperino e paperone siano stati dei fumetti prima di diventare una serie animata. D’altronde da me ci sono tanti film e videogame ma in pochi leggono libri o fumetti. Tutto questo è molto triste ma non c’è molto che io possa fare».
Se le venisse fatta “un’offerta che non può rifiutare”, tornerebbe a disegnare fumetti?
«No. Non c’è niente che mi farebbe tornare a scrivere fumetti. Sono cresiciuto in campagna leggendo i fumetti che mia sorella più grande mi aveva lasciato e ho iniziato così a sentire il bisogno di raccontare storie. Da bambino inventavo storie mescolando fumetti e vecchi film, e al college ho continuato a scriverle insieme agli amici e mi sono dedicato anche alla realizzazione di fanzine. Ho sempre amato raccontare storie. Avrei dovuto seguire mio padre, che lavorava nell’edilizia, ma il mio sogno è diventato realtà e mi è stato chiesto di sviluppare i personaggi inventati da Carl Barks. E l’ho fatto per vent’anni per amore. Per amore del mio lavoro e per amore dei fan che amavano quello che facevo. Alla fine però ho smesso perchè la mia passione veniva continuamente frenata dal sistema del business. Oggi la mia energia la traggo dai fan. Stare seduto davanti a loro anche per ore a firmare autografi mi rende più forte. Alla fine mi alzo ancora più entusiasta e in forma di prima».
Il suo nome ora è un marchio registrato, vero?
«Sì, ho messo il trademark sul mio nome perché non volevo che dopo tanti anni di appassionato lavoro qualcun altro potesse prendere le mie cose e trasformarle in altro mettendo il mio nome senza chiedermelo prima. Non ho il diritto sulle opere che ho realizzato e non prendo un soldo – tant’è che la gente sbaglia se crede che io sia un miliardario per aver scritto per anni le storie dei paperi – ma almeno ora posso avere più controllo. Se vogliono mettere il mio nome da qualche parte prima me lo devono chiedere».
Se potesse, cosa farebbe per migliorare la situazione del fumetto in America?
«Nulla. Ormai non mi occupo di fumetti dagli anni ’80 e ho persino smesso di leggerli. Purtroppo negli Usa hanno la gente ha un unico interesse: i supereroi. Io sono cresciuto tra gli anni ’50 e i ’60 e a quell’epoca c’era più varietà. Per esempio c’erano i cowboy. Oggi vengo a fiere come questa e vedo solo serie di fumetti che ogni cinque anni hanno bisogno di una nuova scossa di energia, di rinnovarsi per continuare a vendere. E poi i superereoi sono il genere imperante. Una volta davanti al mio stand in America è passata un’intera famiglia e il bambino si è messo a guardare i miei disegni con occhio spento, senza riconoscere i personaggi. Finché non gli è caduto l’occhio su una stampa che avevo realizzato per un mio amico e che ritraeva Paperino e Paperone vestiti da Robin e Batman. Ho visto il suo sguardo illuminarsi di interesse. L’unica cosa che conosceva quel bambino erano i supereroi. In Europa mi sembra invece che i ragazzi oggi abbiamo interessi comunque più vari. Io posseggo un terreno con 25 acri di terra intorno e ne ho comprati altri 10 per tenere lontana la gente, anzi per tenere lontani gli americani. Se potessi mi trasferirei in Messico ma ho acculmulato tante di quelle cose che non mi riuscirei a spostare. Colleziono cose di tutti i tipi e posseggo 15 flipper, scaffali di libri antichi, macchine d’epoca e tanto altro».
«Una precisazione, mi piaceva Batman, ho anche il numero uno del fumetto. Anche di Superman. Sono arrivato fino al numero 4. Ma ora questi personaggi non li riconosco più».
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