Samantha Andretti (Valentina Bellé) è stata rapita una mattina d’inverno mentre andava a scuola. Quindici anni dopo, si risveglia in una stanza d’ospedale senza ricordare dove è stata né cosa le è accaduto in tutto quel tempo. Accanto a lei c’è un «profiler», il dottor Green (Dustin Hoffman), che sostiene che l’aiuterà a recuperare la memoria e che insieme cattureranno il mostro. Ma l’uomo precisa ben presto che la caccia non avverrà là fuori, nel mondo reale. Bensì nella sua mente. «Questo è un gioco, vero?» ripete, dubbiosa, la ragazza.
Bruno Genko (Toni Servillo) è invece un investigatore privato, sfatto e trasandato, tabagista forsennato e assediato da fantasmi lontani e nevrosi profonde. Quindici anni prima è stato ingaggiato dai genitori di Samantha per ritrovare la figlia. Adesso che la ragazza è riapparsa, sente di avere un debito con lei e proverà a catturare l’uomo senza volto che l’ha rapita. Ma quella di Genko è anche una lotta contro il tempo. Perché un medico gli ha detto che gli restano due mesi di vita. E, per uno scherzo del destino, quei due mesi sono scaduti proprio nel giorno in cui Samantha è tornata indietro dal buio.
È questa la storia al centro de L’uomo del labirinto, nuovo film da regista dello scrittore Donato Carrisi, reduce dal notevole successo del suo esordio cinematografico La ragazza nella nebbia, che nel 2017 aveva portato a casa ottimi incassi facendo vincere al suo autore anche un David di Donatello come miglior regista esordiente. Carrisi ci riprova adesso con un altro adattamento di un suo romanzo omonimo, edito due anni fa da Longanesi e sequel non dichiarato ma ideale della serie del Suggeritore.
«Ho trovato affascinante i vari livelli del labirinto del racconto – racconta Servillo presentando alla stampa il film -, Direi che abbiamo tre tipi di labirinto. Il labirinto evidente, quello di una città immaginaria non collocabile nel tempo e nello spazio, con un caldo minaccioso, inquietante e biblico, che costringe alla fatica i personaggi. Poi c’è un labirinto mentale, del quale non si vedono i contorni, e infine c’è quello di Genko, il mio personaggio, fatto di vizi e gironi infernali, che per chi ama il brivido aggiunge anche una sorta di inquietudine morale. Nel primo film di Donato ero un membro corrotto della polizia ufficiale, qui interpreto invece una sorta di incapace detective chandleriano».
«Quando devo scrivere un libro o una storia parto da sempre da una mia paura e il labirinto è la mia persona claustrofobia – dice invece Carrisi -, Però sono risalito anche alla mia paura del buio, avendo a disposizione una protagonista che nel buio, incredibilmente, può perdersi. Tutti noi di solito nascondiamo le nostre paure dietro porte di ferro, ma ogni tanto una di quelle porte si apre e mostra delle paure che sono fatte di carne e di ossa e per questo sono ancora più minacciose. A Toni, presentando il film, dissi: “La tua è la discesa agli inferi di un uomo che sta morendo”: Genko può vedere e e immaginare cose che altri non vedono e non fanno, sfidando la propria morte stessa. Come mi ha fatto notare il mio montatore, Toni a un certo punto in molte inquadrature ha cominciato a camminare in maniera sbilenca, e io non gliel’avevo chiesto, è stato qualcosa di naturale. L’idea di affrontare la morte e l’ineluttabilità è stata per lui molto faticoso, anche dal punto di vista fisico. Un uomo che muore è un uomo che è uscito dal proprio labirinto, ma oltre il labirinto cosa c’è? C’è davvero la salvezza? Mi auguro sia la stessa domanda che si farà anche lo spettatore».
«Questo romanzo l’ho scritto per ultimo, era ancora vivo dentro di me e avevo paura che alcune immagini mi sfuggissero dagli occhi prima che le imprimessi sullo schermo attraverso la macchina da presa – continua Carrisi, oltre che regista anche sceneggiatore del prodotto -, Dustin Hoffman l’ho convinto in maniera molto semplice: gli ho raccontato la storia, lui ha detto “wow!” e dopo due ore ha cominciato a farmi delle domande. E poi, cosa non secondaria per lui, gli ho detto anche che nel film c’era Toni. Erano anni comunque che non faceva un ruolo da protagonista, qui non è venuto a fare un cameo e gli ho detto chiaramente che non avrei tagliato nulla, che si sarebbe diviso la scena con Toni fifty-fifty. Lui e Toni, non a caso, sono anche i due produttori esecutivi del film».
«Non l’ho mai chiamato Dustin, ma sempre Mr. Hoffman – racconta Servillo a proposito del suo incontro col celebre attore americano due volte premio Oscar, assente dalla presentazione romana del film -, È stato un mito della mia generazione è uno di quelli che hanno spostato il divo da empireo delle stelle e l’hanno portato sulla strada, nella strada, con la strada. Considero un regalo e una fortuna aver fatto un film in cui da sponde diverse io e Hoffman portiamo avanti una storia che per di più poggia anche su un’attrice così brava come Valentina Belle, che è a tutti gli effetti il terzo personaggio della storia».
«Il film è molto kafkiano, senza dubbio, ma lo sono anche io nella vita reale, mentre gli specchi hanno dato la stura al racconto a partire da un caso di cronaca argentino cui mi sono ispirato, nel quale il rapitore aveva tolto alla vittima gli specchi – precisa poi Carrisi -, I giudici, al processo, l’avevano considerata un’aggravante. La nostra cultura contemporanea si basa sullo specchio, dagli smartphone a internet all’immagine che abbiamo di noi stessi. Davvero riusciremmo a sopravvivere senza gli specchi? Di sicuro nel film c’è anche un po’ di David Lynch, i suoi film li ho visti moltissime volte, ma mi rifaccio anche a Se7en, The Game, I soliti sospetti e ovviamente a Il silenzio degli innocenti, in assoluto il film che mi ha formato di più: Valentina in questo senso ha fatto un lavoro straordinario, probabilmente è lei la vera protagonista e dopotutto non ci sarebbe stato nessun Hannibal Lecter senza la sua Clarice Starling. Quella stagione di thriller eccezionali degli anni ’90 non si è più ripetuta, da quando è arrivato Dan Brown l’omologazione ha avuto la meglio. Il coniglio malefico del mio film, una sorta di Minotauro, viene invece tanto da Alice nel paese delle meraviglie, un vero e proprio horror che oggi la Disney non farebbe più e che ha traumatizzato la mia infanzia, e anche da un film come Harvey, che era super inquietante».
Carrisi chiude con un aneddoto relativo proprio a Dustin Hoffman: «La prima convocazione di Hoffman sul set era alle 7.30 del mattino, ma la sua guardia del corpo alle 6 in punto annunciò che stava arrivando e chiamai subito a raccolta la troupe, erano tutti quanti felici e ansiosi di poterlo finalmente incontrare. Lui entrò nel Teatro 5 di Cinecittà come se si trovasse in Chiesa e mi disse che il suo cruccio più grande era aver rifiutato un ruolo offertogli da Fellini. Nel suo camerino e in quello di Toni abbiamo messo molti memorabilia di Cinecittà, ma nessuno dei due in fin dei conti ci ha passato molto tempo. Nel 1999 un produttore aveva cassato la mia sceneggiatura dicendomi che non si poteva fare un film del genere in Italia perché ci sarebbe voluto Dustin Hoffman. Quando ci siamo parlati per la prima volta e gli ho detto che era nel mio destino, lui mi ha risposto: d’ora in poi allora chiamami Dustino».
«Quando ho letto la sceneggiatura ho pensato che fosse un ruolo femminile bellissimo. Le scene di dialogo così lunghe, per un attore, sono un regalo», dichiara Valentina Bellé, mentre per Caterina Shulha, che nel film veste i panni di Linda: «Donato Carrisi è uno dei pochissimi registi italiani in grado di dare a ogni attore un ruolo completo, che ha un inizio e una fine». L’uomo del labirinto, che vanta nel cast anche Vinicio Marchioni ed è prodotto da Maurizio Totti e Alessandro Usai (il film è una produzione Gavila realizzata da Colorado Film in collaborazione con Medusa Film), arriverà nelle nostre sale il prossimo 30 ottobre distribuito da Medusa.
Foto: Getty
Leggi anche: L’uomo del labirinto, un Toni Servillo da brividi nella clip del film
Leggi anche: L’uomo del labirinto, il trailer del nuovo film di Donato Carrisi con Dustin Hoffman e Toni Servillo
© RIPRODUZIONE RISERVATA