Pochi oratori, nel mondo del cinema, sono incontenibili tanto quanto Michael Moore. Un vulcano vivente, una personalità che ha fatto della provocazione e dello schiaffo al potere il cuore dei propri documentari: mezzi espressivi che affrontano la politica di petto, che non le mandano a dire, che affrontano sfacciatamente contraddizioni e scheletri nell’armadio. Con senso del ridicolo, perfino del tragico, e sprezzo del pericolo.
C’era da immaginarselo, con queste premesse e conoscendo il personaggio, che il suo Incontro Ravvicinato di quest’oggi alla Festa del Cinema di Roma 2018 non sarebbe stata una chiacchierata come tante altre, ma un sermone incandescente e infinito, in cui il regista di Fahrenheit 11/9, il suo ultimo lavoro incentrato su Donald Trump ma non solo (qui la nostra recensione), ha parlato praticamente di tutto: dei mali dell’America di oggi, delle contraddizioni dei media contemporanei, della sua visione – radicale, pessimista – del mondo, perfino del Silvio Berlusconi che fu e soprattutto di Matteo Salvini, al quale Moore ha dedicato parole di raro disprezzo e ancor più forte disapprovazione.
Tutto, però, non può che partire dal cinema, lo strumento che da sempre gli ha fornito la possibilità di scoperchiare magagne e raggiungere un esito al botteghino che il documentario, come genere, prima di lui non aveva mai visto nemmeno col binocolo. «Sono molto preoccupato per la situazione del cinema attuale – dice Moore in apertura, col suo vocione possente e ironico, un megafono retorico straordinario – Negli Stati Uniti è sempre più raro vedere film stranieri, anche nelle grandi città come New York e Los Angeles. Il cinema è la forma d’arte della gente, deve essere salvata. Oggi molte persone non si possono permettere i cento e duecento dollari necessari per andare a vedere un evento sportivo o un concerto, mentre andare al cinema continua a costare dieci dollari, è alla porta di tutti. In Italia dovete continuare a impegnarvi e continuare a fare grande cinema come avete fatto negli ultimi cento anni, in cui ci avete dato davvero tantissimo: meno schifezze, e più arte!»
«Ho avuto la possibilità da ragazzino di vedere film com Amarcord, Il conformista, perfino i film di Akira Kurosawa, nonostante vivessi in un piccolo paesino industriale del Michigan – precisa – Oggi invece le persone non hanno più la possibilità di vedere come si vive nel resto del mondo, sono più ignoranti e hanno meno consapevolezza. Perciò non bisogna stupirsi se poi, in un paese, si prendono decisioni sbagliate. Il 60-70% degli abitanti della mia nazione non ha un passaporto, il che significa che non ha mai lasciato gli Stati Uniti e non sa niente di cosa c’è là fuori, oltre il suo naso.»
A moderare l’incontro c’è, eccezionalmente, Corrado Formigli, giornalista e volto noto della tv, conduttore del programma di approfondimento in prima serata Piazzapulita, che va in onda su La 7. Il suo interlocutore chiede a Moore cosa pensi, oggi, di George W. Bush, da lui messo alla berlina e attaccato duramente in Fahrenheit 9/11, il suo film più famoso e celebrato. «Considererò sempre, sempre, sempre Bush responsabile di crimini di guerra. L’Iraq a noi non aveva fatto assolutamente niente. Lui e Dick Chaney si tengono lontani dall’Europa per paura di essere arretrati, probabilmente. Sia Bush che Trump hanno entrambi perso le elezioni, in quanto a maggioranza assoluta di voti: Al Gore superò il primo di un milione e mezzo, Hillary ha vinto di tre milioni contro Trump. Se il nostro paese fosse stata una vera democrazia sarebbero stati loro i presidenti. I democratici dovevano combattere la battaglia per riformare il sistema di voto sedici anni fa, e non lo hanno fatto. Rimane una colpa imperdonabile.»
Ma cosa ha convinto gli operai della cintura industriale dell’America a votare in massa per Trump? «Questo dato, in realtà, è arrivata dall’altra parte del mondo in maniera sbagliata. La Clinton ha avuto più voti dalla classe operaia, le persone con un reddito annuale di 30.000 dollari o meno, mentre Trump ha riscosso più successo tra coloro che hanno un profitto all’anno di 50.000 dollari e più, la classe più benestante. Il 64% degli uomini ha votato per lui, contro il 35% delle donne, ma le cose stanno cambiando rapidamente e i giovani tra i 18 e 35 porteranno una ventata di novità alle prossime elezioni. Credo che in America siano gli ultimi giorni del dinosauro bianco morente, che ci ha dominato in tutti questi anni con la sua supremazia schiacciante.»
Ma anche con i media, che hanno giocato un ruolo importante nell’ultima corsa alla Casa Bianca delegittimando Trump ma in realtà rafforzandolo sottobanco, Moore non ci va per niente leggero, e quando cita il soprannome The Donald lo fa accompagnando l’espressione con una vocina di scherno che strappa sonore risate. «Non hanno prestato attenzione. Il giorno delle elezioni il New York Times aveva un riquadro in cui riportava le sue probabilità percentuali di vittoria e Trump veniva dato a un 15% scarso. I media vivono nella loro bolla e per decenni la stampa ha amato Trump, era intrattenimento da tabloid per loro, vendeva. I giornalisti sono innamorati di lui e lo chiamano The Donald! Tutti, anche i comici di sinistra, si sono messi a ridere quando lui diceva di voler correre per la Casa Bianca. Io invece dicevo che faceva sul serio e loro rispondevano: sì, ma la gente è troppo intelligente. Io allora precisavo: no, la gente non è intelligente, anche perché da tre decenni le scuole americane sono state lasciate allo sbando.»
Moore, come testimoniano queste parole, non teme mai di risultare scomodo, di esporsi direttamente. Ne ha per tutti, politica italiana compresa. «Avete avuto prima Berlusconi e poi Salvini! Andiamo, non potete essere così stupidi. Sono cinque giorni che sono qui a Roma, ho guardato molta televisione italiana ultimamente. Non parlo italiano – ho fatto latino per un anno a scuola, non mi tornerà utile temo! – ma vedo che le persone si lasciano intrattenere anche qui. Trump è un grande performer, le persone lo amano per questo. Qui da voi vedono Salvini e Di Maio e li trovano un gradevole intrattenimento. La colpa è della sinistra, che in Italia ha pensato di spostarsi a centro e di essere dei Salvini e dei Berlusconi in versione intelligente. Ma questo aggettivo, accanto ai loro nomi, non si può davvero sentire!».
«Salvini è un razzista – prosegue Moore, sempre infervorato, ma con un distacco più analitico che probabilmente gli deriva dalla distanza culturale nei nostri confronti – So che la situazione è difficile per l’Italia sul fronte immigrazione e mi spiace che il mio paese non accolga nessuno per dare una mano, ma dopotutto anche l’attuale presidente americano è razzista fin nel midollo. Gli italiani devono iniziare a prenderlo per quello che è, ovvero un bigotto. L’amore è amore a prescindere dal genere della persona. Salvini eviti semplicemente di sposarsi con un uomo, se non gli piacciono, e lasci stare gli omosessuali! L’Europa e non solo l’Italia ovviamente sono minacciate anche da Steve Bannon, che vorrebbe portare il modello Trump qui da voi: trovo sia un genio, non sottovalutatelo. Ma smettetela di pensare “Italy first”, come dice Salvini, siate l’Italia e basta, prima gli italiani è una sciocchezza. Siete un paese meraviglioso, abituato a trattare le cose con grande cura.»
Nel corso di questo fluviale e infinito pomeriggio, in cui Moore si concede al pubblico a 360° e senza freni inibitori, c’è però anche spazio per la sua anima sentimentale, così ardimentosa, quando parla di ciò che gli sta a cuore, da sfociare perfino nella retorica smielata (sempre accompagnata, tuttavia, all’aneddoto fulminante). Il pensiero, a questo proposito, va ovviamente al penultimo inquilino della Casa Bianca. «Io ho votato due volte per Barack Obama. Nella prima elezione, nel 2008, sono entrato nella sede elettorale e il suo nome sulla scheda recitava Barack Hussein Obama. Un sacco di leader democratici lo hanno pregato e implorato di togliere il nome Hussein, spaventati dall’eco musulmano dalla parola, qualcuno addirittura voleva chiamarlo Barry. Il colore nero non si poteva togliere, ma almeno il nome…Davanti a quella scheda elettorale mi sono riempiti gli occhi di lacrime e una lacrima è caduta proprio sul cerchietto che avevo colorato. Ho soffiato e cercato di pulire, ma da fuori si sono accorti del trambusto…».
E infine, proprio a proposito di elezioni, non si può non congedarsi da Michael Moore se non chiedendogli: come vede le elezioni di midterm, quelle che tra due anni metteranno Trump davanti alla sfida del rinnovo del mandato? A questo proposito, il regista lascia filtrare una nota, per quanto flebile, di speranza, in netta opposizione, almeno a parole, col finale del suo film, che invece chiude su note ben più funeree e disperate. «Trump è il peggio del peggio, se avrà successo sarà in carica fino al 2025 e avrà tempo a sufficienza per distruggere quello che resta della democrazia. Però tra due anni andranno a votare tante più donne e tanti più ragazzi giovani: è da loro che vorrei che Donald J. Trump fosse mandato a casa, sono loro che devono fermarlo!».
Foto: Getty Images
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