Xavier Dolan è un talento selvaggio, purissimo, difficile da tenere a bada. Non solo nei suoi film, scomposti e passionali, focosi e generosi, ma anche nel rapporto con i social media, con i fan che ne adorano la sincerità e il modo sfrontato di porsi e raccontarsi.
A soli 28 anni, con un pugno di film all’attivo, questo canadese non ancora trentenne, che ha iniziato il proprio percorso da regista poco dopo i vent’anni, può già vantare una schiera di giovani e giovanissimi ammiratori che hanno contribuito a imporlo come uno dei più grossi fenomeni cinematografici degli ultimi tempi, in bilico tra pop e mélo, tra gusto popolare e vocazione d’autore.
Una zona franca in cui Dolan esprime tutto se stesso, senza preoccuparsi delle definizioni, perché così gli impone il suo carattere indomito, dopotutto: un temperamento che per il momento pare avergli fornito la ricetta dell’eterna giovinezza. Sperando che duri il più a lungo possibile, che questo incanto all’insegna della purezza più assoluta non si spezzi.
L’Incontro Ravvicinato col direttore della Festa Antonio Monda e col pubblico, che l’ha accolto sul red carpet come una divinità tra selfie e infiniti scatti a lui e al suo nuovo taglio biondo platino, è stato Dolan al 100%: un distillato perfetto del suo istinto voglioso di esporsi, bruciare le tappe, accogliere su di sé e sulla propria arte tutto l’amore e l’irresponsabilità del mondo. In attesa del suo primo film in inglese, La mia vita con John F. Donovan con Jessica Chastain, Natalie Portman e Kit Harington.
Come artista, preferisci recitare o dirigere?
Direi che preferisco recitare, ma quando vesto i panni del regista è chiaro che sto recitando, anche se insieme agli attori che ammiro. Non è così gratificante come quando sono io a recitare, ma per un paio di mesetti o anni la sfango anche così! Trovo sia bellissimo vedere come gli attori cambiano vicino a me, come evolvono, si trasformano. Però mi manca molto recitare e negli ultimi anni vorrei recitare di più, per me o per altri.
Dietro i tuoi film si avverte un senso di necessità molto forte.
Il mio nome prima era impresso solo sul diploma del liceo, non avevo mai fatto niente, ma avevo bisogno di iniziare e come attore ero disoccupato. Ho pensato che magari avrei potuto lavorare a una sceneggiatura sulla mia vita (il film sarà J’ai tué ma mère, inedito in Italia, ndr), perché non ci sarebbe stato nessuno tranne me a essere perfetto per quel ruolo. Ho investito tutti i miei soldi per questa operazione, nessuno mi ha seguito, tranne i miei attori che sono stati leali. Tu parli di necessità, io parlo di problema. Nessuno poteva risolvere il mio problema e me lo sono risolto da solo.
Ami molto le inquadrature lunghe senza stacchi di montaggio, i piano-sequenza?
Quando usi la singola inquadratura senti la tensione palpabile del pubblico, è una grandissima sfida. Una coreografia coinvolge tutti e richiede la dedizione di tutti, ciascuno sul set è coinvolto nella creazione della scena. A volte dopo tanto lavoro non funziona, è troppo lunga e dobbiamo tagliarla. Non voglio che niente metta a repentaglio l’equilibrio della storia, nessun concetto né elemento può mai risultare più importante. La storia, per me, viene sempre prima di tutto.
Quali sono i film e i registi che ti hanno più ispirato?
Non ho visto molti film e spesso vedo la delusione sulla faccia di quelli che mi parlano perché spesso citano film che io devo ammettere di non aver visto. Mi sento sempre in colpa per questo. Quando ho fatto J’ai tué ma mère avevo in testa In the mood for love e sono sicuro che se Wong Kar-Wai lo vedesse mi potrebbe accusare di plagio per aver rubato sfacciatamente da lui! Ho letto un libro che si intitola Ruba come un artista il cui mantra principale recita inizia che sei fasullo e poi diventerai reale e un’altra lezione che mi è rimasta molto impressa nella mente è quella di Coppola che dice vogliamo che voi rubiate da noi, dalle nostre inquadrature finché verrà un giorno in cui qualcuno ruberà da te. Personalmente credo di aver smesso di rubare esplicitamente dopo Tom à la ferme, perché da lì in poi ho cominciato a capire meglio chi fossi.
I tuoi film pongono sempre il rapporto del problema tra la libertà e la felicità. Probabilmente è per questo che piacciono così tanto.
Ci sono molti film su persone che non hanno né speranza né fortuna, oppure lottano ma tutto gli è contro e va storto. Io li chiamo i film della “pornografia del povero”, perché amano parlare di gente ai margini della società ma non gli danno mai una chance. Io invece amo i combattenti, le persone cui viene data una possibilità. Ma alla società questo è piuttosto inviso, perché è più facile mettere qualcuno di fronte al suo fallimento. I miei personaggi non sempre vincono, ma il desiderio di libertà se lo portano dentro e non sono mai dei perdenti.
Non hai mai nascosto di essere un fan di Titanic.
Lo venero, è un prodotto meraviglioso in ogni aspetto, un capolavoro dell’intrattenimento moderno. Una volta l’ho dovuto confessare di fronte a un gruppo di persone formato da Charlize Theron, Sean Penn, Julian Schnabel, Ron Howard. Il mio agente mi aveva portato a questa cena dicendomi che sarebbe stato qualcosa di informale e poi mi sono ritrovato in mezzo a tutta questa gente. C’era chi parlava dei film anni Trenta, chi del cinema africano tra le proprie ispirazioni e io ero terrorizzato di dover confessare Titanic. Ma l’ho visto a otto anni e credo che mi abbia fatto capire di voler diventare regista, anche se a quell’età ero solo consapevole del fatto che volevo subito scrivere una letterina a Leonardo DiCaprio! Quel film mi ha detto “vola!”, abbi fiducia. Non sarà un’opera intellettuale ma io mi sono formato con Jumanji e non mi vergogno più a dirlo, anche se tra i miei film preferiti c’è pure Lezioni di piano.
Tra gli ultimi film che hai visto e che hai amato c’è anche un film di un regista italiano, Call me by your name di Luca Guadagnino.
Ha lasciato un segno profondo su di me, è un film che non solo ti insegna molto sull’amore ma tanto anche sul dolore. La gente dice sempre che un film è deprimente come fosse una cosa negativa, ma quando qualcuno ha sperimento cosa vuol dire soffrire davvero per amore vedi queste cose diversamente. Non sono tanti film i film che celebrano la perdita, eppure tanti miei film sono nati quando avevo il cuore spezzato e volevo far colpo su qualcuno che amavo e avevo perso. Vedendo Call me by your name mi sono sentito compreso perché ho capito che il regista che lo ha realizzato come me sa cos’è il dolore. Ed è consapevole anche che la sofferenza apre tante porte.
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