Macbeth, nuovo adattamento filmico della tragedia di William Shakespeare dopo quelle di Akira Kurosawa, Orson Welles e Roman Polanski, è il primo film realizzato da Joel Coen in solitaria, senza la collaborazione del fratello Ethan. Si tratta dunque del lungometraggio che segna l’inedita separazione tra una delle coppie più decisive, geniali e influenti del cinema americano contemporaneo: la scissione definitiva non è ancora stata ufficializzata, ma Ethan ha deciso nel frattempo di dedicarsi ad altro e una conferma indiretta è arrivata anche dal loro compositore e collaboratore abituale, Carter Burwell.
La trasposizione, prodotta dalla fertile casa di produzione A24, alfiere ai nuovi territori del cinema di genere, e con protagonisti Denzel Washington e Frances McDormand nei panni di Lord e Lady Macbeth, rilegge l’anima cruda e sanguinaria dell’opera del Bardo, raggelandone non poco istinti e pulsioni e lasciando risuonare sinistro, seraficamente e in controluce, il rintocco del distacco cinico e anti-umanista tipico delle opere dei Coen (un forte tratto di discontinuità, indubbiamente, rispetto alle precedenti versioni per il cinema del Macbeth).
La tenuta espressiva è notevolissima e abbacinante, con la complicità del bianco e nero livido fotografato dal sempre eccellente Bruno Delbonnel in formato 4:3, mentre l’eleganza glaciale, per quanto costantemente sull’orlo del patinato, per fortuna non disperde mai il cuore nero, archetipico e universale, delle vicende di un uomo convinto da un trio di streghe di essere il prossimo re di Scozia, affiancato e subissato da una moglie ambiziosa e furente.
La terribile e tirannica spirale di violenza si traduce così in una dissertazione sul potere puramente visiva, dal pallore puntualmente malsano, spinta verso l’astrazione da un geometrico e spettrale razionalismo delle forme. Alla base dell’operazione c’è dopotutto un’idea di thriller macabro e sardonico, in pieno stile Coen, con un approccio provocatorio e destabilizzante alle pulsioni psicanalitiche del testo classico.
I protagonisti fronteggiano infatti la propria, personale sfida per il potere assoluto mentre vedono le proprie reciproche speranze disfarsi inesorabilmente, sotto il peso di un mondo e di un paesaggio emotivo al collasso. Ne derivano ritratti umani dilaniati e contrasti profondi, che non trovano applicazione solo nella confezione estetica, debitrice di tanto cinema espressionista tedesco e del maestro danese Carl Theodore Dreyer, ma anche nella riflessione sul caso e il destino di individui schiacciati da un fato cieco e insondabile, pronto a far saltare il banco di ogni raziocinio.
Tutti temi assai cari, in passato, alla poetica coeniana, rispetto quale Macbeth è, in filigrana, una sorta di algido ritorno alle origini, di prodromo ideale, di costola letterariamente nobile in cui tutti i personaggi sono consapevoli del proprio deterioramento fisico e interiore, oltre che portatori di una spossatezza che passa dall’introspezione tanto quanto dalla messa in quadro.
Foto: A24, IAC Films
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