Il cinema che gira attorno a Stefano Sollima – ma anche la serialità – ha innanzitutto questo vantaggio, il monopolio produttivo su un genere e un immaginario, la totale assenza di rivali. Sollima fa noir territoriali, cioè pensa a un luogo e racconta come il crimine lo trasfigura, dopodiché opera una seconda trasfigurazione, quella pura del cinema, definendo il proprio stile.
Tutto questo è molto prezioso, perché è chiaro che se con Gomorra e ora Suburra stiamo rimettendo il naso fuori dai nostri confini e sfondando oltreoceano (Netflix distribuirà il film in tutto il Nord America, e produrrà una serie ispirata al libro), se attirano l’attenzione anche dei non cinefili, è perché oltre alla capacità di maneggiare i meccanismi del thriller – e in Suburra c’è una sparatoria al supermercato che non stonerebbe in un bel poliziesco francese o di Hong Kong – ci sono dentro anche un’idea della società e la sua cronaca, che è poi l’unico modo per evitare quelle imitazioni un po’ patetiche del cinema americano che ingolfano da anni le nostre produzioni indipendenti.
In questo caso la storia coinvolge un parlamentare di destra (Pierfrancesco Favino), il capo di un clan malavitoso di zingari (Adamo Dionisi) e un di gangster di Ostia (Alessandro Borghi), che ha il controllo operativo su una lunga fetta di litorale che dovrebbe essere trasformata in una specie di polo del gioco d’azzardo. Poi c’è un ometto meschino (Elio Germano), un organizzatore di feste ed eventi, che resta immischiato nella partita criminale suo malgrado ma finisce per fare delle cose terribili. E un misterioso burattinaio chiamato Samurai (Claudio Amendola), uno che organizza la convivenza delle famiglie malavitose che operano su Roma, e tiene in comunicazione Stato, Chiesa e Mafia.
Tra questi personaggi, senza addentrarsi nei particolari, si crea una situazione di crisi, un tutti contro tutti che terminerà solo quando si sarà trovato un nuovo equilibrio di poteri.
Ecco, se pure Suburra ci piace, rimane forse la storia più “naturale” raccontata da Sollima, ci sono cioè più svolte obbligate qui in due ore che in tutta la prima stagione di Gomorra. Questo ne fa un racconto di genere più tradizionale, e forse è il complimento migliore che si può fargli, perché è proprio questo che manca in Italia: professionisti con una chiara idea di cinema e una produzione forte alle spalle che non si vergognino di fare il genere puro (è la sensazione che danno invece film come Perez o Anime Nere). A sparigliare un po’ le carte ci pensano comunque i due personaggi femminili, forse marginali e forse no, una escort e la donna del gangster: riempiono di umanità il film quasi da sole.
Poi ci sarebbe la questione dello stile, con questa Roma notturna e piovosa, “al neon”, che è un’evoluzione della Napoli di Gomorra, e comincia ad assomigliare alle città violente di Refn.
Sollima deve stare attento a questo, a restare sempre attaccato alle storie e ai personaggi, come in Suburra accade molto bene quando l’intreccio inizia a svolgersi, dopo una prima mezz’ora appesantita dai formalismi di uno che sa di essere bravissimo e si diverte, ma che se diventa “troppo autore” rischia di farci preoccupare.
Di seguito, la nostra video-recensione, con tanto di voti:
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