È il volto di molte serie tv di successo – da Carabinieri a Incantesimo, passando per Don Matteo – e, non a caso, attualmente è impegnata sul set di una fiction in sei puntate, che probabilmente sarà trasmessa dalla Rai il prossimo febbraio: si intitola Rosso San Valentino, del resto; è diretta da Fabrizio Costa e interpretata, tra gli altri, da Andrea Giordana. Ma Marina Pennafina è soprattutto il volto di una delle quattro donne protagoniste del film di Fabrizio Cattani, Maternity Blues, in sala da oggi. Un ruolo, quello di Vincenza, che lei aveva già interpretato a teatro nello spettacolo From Medea di Grazia Verasani da cui la pellicola è tratta. Racconta la storia di quattro donne molto diverse tra loro ma accomunate da una grave colpa: l’omicidio dei figli, e per questo ricoverate nell’Ospedale Psichiatrico Giudiziario (OPG) di Castiglione delle Stiviere.
Best Movie: Come è stato riprendere questo personaggio?
Marina Pennafina: «È stato un po’ come tornare indietro – era dal 2003 che non vestivo i panni di Vincenza – ma nello stesso tempo rinnovare un personaggio che adesso è molto più ricco. Grazie a Fabrizio siamo andati molto più a fondo, abbiamo potuto ricostruire il suo passato, attraverso alcuni flashback, cosa che in teatro non era stato possibile. E poi al cinema ho potuto giocare più sul “piccolo”, sugli sguardi, per riuscire a trasmettere emozioni e verità».
BM: Come si affronta e come ci si prepara a un ruolo tanto complesso?
MP: «Confesso che è stato difficile, perché io non sono madre, per cui dovevo lavorare su sensi di colpa e paure che io non avevo mai provato. Però quando l’ho affrontato la prima volta, per lo spettacolo teatrale, venivo da una serie di esperienze dolorose, che stavo cercando di rimuovere, per cui ho attinto molto da quelle. Per quanto riguarda la maternità ho cercato delle figure a me vicine che incarnassero la maternità in senso classico. Perché Vincenza è di estrazione popolare, casalinga. Lei è nata per allevare figli e accudire il marito e prendersi cura della casa. Questi sono i valori che le sono stati trasmessi fin dalla nascita. Che sono esattamente quelli che io ho ritrovato in mia madre. E poi ho “usato” la mia indole materna».
BM: Cos’ha provato la prima volta che ha interpretato Vincenza?
MP: «È stato molto forte, tanto che quando in teatro provavo la scena della lettera, spesso mi capitava di piangere. Ha toccato delle corde molto intime. E in un certo senso è stata una liberazione per diversi anni».
BM: Per il film avete avuto la possibilità di incontrare le donne ricoverate all’OPG e ascoltare la loro testimonianza?
MP: «Noi attrici no, ma Fabrizio sì. E lui ha anche parlato a lungo con il Professor Calogero, il direttore dell’ospedale. Per cui durante le riprese ci ha aiutato a tirare fuori le paure e le emozioni ma nello stesso tempo ci ha sapientemente guidate. Però abbiamo avuto la possibilità di vedere un video di una donna che raccontava la sua esperienza, e che è stato anche trasmesso dalla Rai. Mi ha scioccato. Mentre l’ascoltavo mi sono incantata sul suo sguardo, perso nel vuoto. Come se lei stesse raccontando la sua esperienza in prima persona ma dentro di sé la vivesse in terza. Le scendevano le lacrime, ma erano le lacrime di una donna presente e assente nello stesso momento. Ho ragionato su questa cosa e ho pensato: deve essere per forza così perché se una persona prende piena coscienza di quello che ha fatto, non può che uccidersi».
BM: Come del resto fa Vincenza…
MP: «Sì, quando lei acquista coscienza di ciò che ha commesso e arriva a toccare la verità dentro se stessa e a vedere in prima persona, lì crolla. Capisce che forse solo nella morte c’è l’espiazione e il perdono divino. E un ricongiungimento con il figlio che ha ucciso. Io credo che sia l’unico atto d’amore che fa verso se stessa».
BM: Nonostante abbia una forte fede in Dio…
MP: «Proprio la fede la porta a compiere questo atto definitivo verso se stessa. È l’ancora a cui si è sempre aggrappata, anche in questo caso».
BM: Vincenza è anche l’unica donna che ha ancora dei figli in vita, ai quali rivolge un diario che compila quotidianamente. Che cosa rappresentano quelle pagine?
MP: «È un tirare fuori i ricordi. E proprio nel momento in cui arriva a ripercorrere tutta la sua vita, alla fine del diario, lucidamente e con serenità decide che la cosa più giusta da fare è lasciare questa vita. Il diario diventa allora un percorso interiore. Ed è l’unico filo di unione che ha ancora con i figli, che volutamente non sente, perché sa che ora stanno bene».
BM: Con un tema così delicato era facile cadere nella retorica. E invece il pregio del film è quello di riuscire a fotografare una realtà mantenendo una distanza oggettiva e delicata.
MP: «L’intenzione del film è proprio quella di mostrare che non siamo davanti a dei mostri ma a delle persone malate e trascurate nella loro malattia. E in questo è colpevole anche la società che le circonda, che per paura di riconoscere e affrontare questa patologia preferisce “liquidarla” con facili condanne e pregiudizi. Anche perché, soprattutto in Italia, la figura della madre è spesso associata a quella della Madonna. Come si può accettare che colei che dona la vita è anche in grado di toglierla in maniera così brutale?».
BM: Le è capitato di incontrare donne o amiche che le hanno confessato di aver avuto esperienze simili e di aver sofferto di depressione post partum?
MP: «Purtroppo sì. Un’amica molto cara. L’ho saputo dopo che avevo finito di girare il film. Lei però ha un equilibrio psicologico forte e radicato, per cui ha saputo mantenere il controllo e non è arrivata a gesti estremi. “È un filo sottilissimo, non ti rendi neanche conto di superarlo”, mi ha confessato un giorno, raccontandomi che, poiché sua figlia piangeva, ha iniziato a cullare la carrozzina. Fino a che questo cullare tranquillo non è diventato un cullare nevrotico, strattonato. Poi ha guardato la bambina e lì si è resa conto, e si è fermata».
BM: Vincenza, invece, non è riuscita a fermarsi.
MP: «Vincenza è completamente in stato catatonico. Compie un gesto meccanico e non si rende conto di ciò che sta facendo. In quel momento lei vorrebbe solo annientare se stessa, perché sente di essere una donna e una madre fallita. E invece trova il bambino».
BM: Perché Vincenza e in generale le donne che vivono questa forma depressiva non chiedono aiuto?
MP: «Perché dovrebbero ammettere di aver fallito. Vincenza dovrebbe rendere pubblico il tradimento e l’abbandono del marito. Non lo fa. Non lo può fare. In queste situazioni il sostegno della famiglia è fondamentale. Se viene meno, la frustrazione rischia di sfociare in dramma».
BM: Secondo lei per queste donne esiste la speranza di ritrovare una parvenza di serenità? Perché dal film non traspare molto.
MP: «Io voglio sperare di sì, anche se in maniera non totale. Però se c’è il recupero e se si riesce a vivere l’esperienza in terza persona, si può raggiungere una parvenza di serenità per continuare a vivere».
BM: A chi consiglia Maternity Blues?
MP: «A tutti, donne e uomini. Madri e padri. Per venire a conoscenza di un problema che potrebbe capitare a chiunque e per il quale è fondamentale capire i segnali. Questo film potrebbe finalmente sfatare uno dei grandi tabù della nostra società».
Marina Pennafina (Vincenza) insieme alle altre protagoniste del film: Andrea Osvart (Clara), Chiara Martegiani (Rina), Monica Birladeanu (Eloisa)
(Foto di Nicola Giannotti)
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