Pinocchio, per Matteo Garrone, era un’ossessione impossibile da lasciarsi alle spalle. Il regista di Gomorra e Dogman alla fine ce l’ha fatta, a portare sul grande schermo la sua versione della celebre fiaba di Collodi, in arrivo nelle nostre sale il prossimo 19 dicembre in 600 copie, che saliranno addirittura quota 700 nei giorni di Natale. Una sfida importante e ambiziosa per il nostro cinema, che riporta Garrone ai territori dell’infanzia e ai primi barlumi della sua ispirazione artistica.
«Ho iniziato a disegnare Pinocchio quando avevo sei anni ed è un racconto che mi accompagna da allora – esordisce il regista presentando il film alla stampa a Roma -, Come regista per me era difficile resistere alla tentazione di fare Pinocchio e ho avuto la fortuna di avere accanto a me dei compagni di viaggio straordinari. Tutti gli attori mi hanno aiutato a dar vita a questi personaggi e a fare un film che avesse anche una sua leggerezza, con un po’ di ironia e comicità, anche se il più delle volte si tende ad associare il mio cinema a qualcosa di cupo e violento. Era un film che andava fatto proprio in Italia e sono orgoglioso di dirlo: i nostri attori hanno saputo dare ai personaggi tutte le sfumature che spero che Collodi avrebbe amato, se l’avesse visto».
«Sicuramente con Il racconto dei racconti ho iniziato a esplorare il rapporto tra il reale e il soprannaturale, ma questo film è una storia a sé – precisa Garrone a proposito di un’ipotesi di continuità col suo precedente esperimento fiabesco tratto da Basile, risalente del 2015 -, Pinocchio ha mille chiavi di lettura, oltre a essere una grande storia d’amore tra un padre e un figlio, sulla redenzione e il bisogno di tornare ad amare il padre. Sento che ogni fotogramma di questo film mi appartiene, ma allo stesso tempo volevamo fare un film popolare, proprio come il testo di Collodi, che parlava a tutti indipendente dalle classi sociali e dall’età. Sarà il pubblico, a partire dal 19, a dirci se ne valeva la pena e aspettiamo con ansia la risposta degli spettatori».
«Quando si vede un film di quest’importanza, singolarità, originalità e bellezza per la prima volta batte il cuore – esordisce invece Benigni, interprete di Geppetto, con la consueta energia e passionalità e non lesinando nemmeno la sua proverbiale ironia -, Non ricordo chi è stato l’ultimo a fare Pinocchio in Italia, non mi viene in mente, ma direi che questo di Garrone è il più bello! Pinocchio è come il sole, è sempre davanti a noi, anche quando prendiamo il caffé. Ci sono dentro quei segnali misteriosi propri della grande letteratura, non è solo una fiaba, va oltre, è quasi divinatorio. Fellini, pensate, lo apriva e vi metteva sopra il dito a caso, come con la Bibbia. Geppetto, insieme a San Giuseppe, è il padre più famoso del mondo. Tutti e due hanno dei figli “adottivi” che gli scappano tra le mani, che muoiono e risorgono, è tutto quasi evangelico. Nel mio La vita è bella era invece il padre a essere pinocchiesco, la grande bugia la diceva lui».
«Matteo è un regista attento a tutto, dirige un film come se lo scrivesse con la penna biro, sembrava quasi di fare Paisà – aggiunge il premio Oscar toscano -, Garrone, che considero uno dei più grandi registi di tutti i tempi, è prima di tutto un pittore. Qui è andato dai Macchiaioli a Bosch, ma non è solo grande pittura la sua, perché sa far emozionare, commuovere e divertire con le immagini. Un tramonto non ci fermiamo a vederlo solo perché è lì, ma perché ci racconta qualcosa. Questo è un Pinocchio per famiglie, per bambini che vanno dai 4 agli 80 anni! Le parole che più ricorrono nel testo di Collodi sono “povero”, “casa”, “babbo”, come fossimo in E.T. E dentro questo film c’è anche una meravigliosa dignità della povertà, che in Pinocchio è la più grande ricchezza, e la scena iniziale, in osteria, può ricordare Chaplin, forse il più grande e celebre Geppetto di tutti i tempi».
A interpretare il Gatto e la Volpe troviamo poi Rocco Papaleo e Massimo Ceccherini, che danno ai personaggi una componente animalesca e perfino mostruosa molto marcata, in linea con le suggestioni dark che Garrone ha accarezzato e amplificato rimanendo fedele allo spirito intrinseco, e indubbiamente meno noto, della fiaba originale. «Ho tanto orgoglio nell’aver partecipato a questo film – dice Papaleo -, Adoro i film di Matteo, sono i più belli, per lui avrei fatto anche la lumaca. L’idea di ritrovare Massimo Ceccherini, di fare coppia con lui, era emozionante, anche per tutte le vicissitudini che ha vissuto e per il fatto che siamo amici da molto tempo. Essendo anche musicista ho provato ad armonizzarmi nel fare, a tutti gli effetti, il controcanto di Massimo».
Ceccherini, curiosamente, ha anche firmato la sceneggiatura insieme a Garrone. «La mia collaborazione con Massimo è nata casualmente lavorando sul personaggio della Volpe – spiega il regista -, Ci siamo trovati così bene che abbiamo rivisto anche le altre scene. Il mio copione originario era molto vicino al testo di Collodi, ho fatto un lavoro di giardinaggio, con giusto qualche potatura. Con Massimo ci siamo accorti però che si poteva rimanere fedeli a Collodi inserendo qualche dettaglio in più, anche a fini comici. Massimo è diventato una figura fondamentale per il film, mi ha accompagnato per tutto il film e da lui ho imparato molto». Alle sue parole fa eco la divertente risposta dell’incontenibile comico toscano: «Una cosa così bella me l’ha detta solo la mi’ mamma: Garrone è la mia Fatina».
A proposito delle sue ispirazioni, Garrone dimostra invece con una certa disinvoltura di aver tenuto come punti fermi dei riferimenti più grafici che cinematografici: «Enrico Mazzanti, primo illustratore di Pinocchio, è stato per me fondamentale. Lavorò accanto a Collodi, avendo già prestato servizio per altri suoi testi, e i suoi disegni mi hanno segnato. Sicuramente mi ha ispirato anche la pittura dei Macchiaioli (già citati da Benigni, ndr), nella sua semplicità, e il Pinocchio di Luigi Comencini per la sua povertà. Tim Burton è un regista che conosco e ammiro e magari è possibile che nel film ci sia anche qualcosa di suo, ma non in maniera premeditata».
Nel cast, oltre ai piccoli Federico Ielapi, incaricato di incarnare il burattino di legno, e Alida Calabria, figurano anche Davide Marotta (il Grillo Parlante), Marine Vacth nei panni eterei e struggenti di una Fata Turchina mai così gotica, e Gigi Proietti in quelli di Mangiafuoco: «Con Matteo c’eravamo incontrati una volta per caso, poi una volta mi ha chiamato e mi chiese di fare Mangiafuoco. Venne a casa mia e mi portò una mia fotografia, dove sembravo un po’ Rasputin, e rimasi incantato da quest’ipotesi. Anche se l’apparizione del mio personaggio è brevissima sono contento di essere a bordo di questo progetto e sono convinto che Mangiafuoco potrebbe dar vita a un film tutto suo: è un uomo solo, che vive con dei burattini di legno, e che a un certo punto si ritrova sul suo cammino un burattino senza fili, addirittura umano. Qualcosa di straordinario».
Lussuoso, infine, anche il comparto tecnico, che schiera il direttore della fotografia Nicolaj Bruel, lo scenografo Dimitri Capuani, il montatore Marco Spoletini, il compositore Dario Marianelli, il costumista Massimo Cantini Parrini e Pietro Scola e Mark Coulier, autori rispettivamente dei disegni e del trucco prostetico dei personaggi.
Foto: Getty Images
© RIPRODUZIONE RISERVATA