All’inizio degli anni ’90 (siamo nel 1994), un aspirante sceneggiatore che vive a Parigi, Amin (Shain Boumedine), fa ritorno per l’estate nella sua città natale nel Sud della Francia. Vi ritrova le proprie origini, gli amici di sempre, il cugino Tony, le ragazze, i mille colori di una vita familiare e prorompente, che lo accarezza e lo seduce senza mai dargli tregua.
Amin però, pur partecipando agevolmente a tutto ciò che lo circonda, conserva un velo di distanza, un’estraneità. Immerso in una costante aura malinconica, lavora alle sue fotografie, alle sceneggiature che gli si agitano in testa, riprende le greggi, lambisce l’amore in tutte le sue forme. Eppure se ne tiene un po’ ai margini: semplice voyeur in mezzo a coloro che godono, straniero in patria, presenza seducente (e seduttiva, perché le ragazze cadono letteralmente ai suoi piedi) eppure impenetrabile.
Il giovane protagonista del nuovo film del regista franco-tunisino Abdellatif Kechiche, Mektoub, My Love: Canto Uno, è un mistero proprio come il mektoub, il destino evocato dal titolo che nel film non si materializza mai, schiacciato sotto il peso di una carnalità onnipresente che è martellante, continua, priva di argini.
Una figura autobiografica intorno alla quale il cineasta costruisce un romanzo di formazione torrenziale, che azzera di fatto il montaggio cinematografico propriamente detto e si abbandona a un flusso di situazioni e sensazioni, di impressioni e umori corporali ancora più imponente e inarrestabile de La vita di Adele, storia d’amore tra due ragazze dalla durata identica (tre ore) con cui il regista aveva vinto la Palma d’oro nel 2013.
Jean Cocteau ha scritto che il cinema è la morte al lavoro. Ecco, con il cinema vorace e irripetibile di Abdellatif Kechiche bisognerebbe capovolgere l’assunto e parlare solo e soltanto di vita al lavoro. Nei modi più naturalistici attraverso cui il cinema può pensare di rappresentarla, di dare voce, in maniera spaventosamente concreta e tangibile, a cose come l’attrazione, l’imbarazzo, il silenzio carico di attesa, la tensione erotica satura di aspettative e non detti. Tutto quel campionario di vergogne e tremori che chi è stato innamorato (e dunque vivo) almeno una volta nella vita conosce benissimo.
Apre il suo film con due citazioni sacre sulla luce, Kechiche, una dal Vangelo di Giovanni e l’altra dal Corano, tutt’altro che casuali: la luce che bagna i suoi protagonisti è sia la luce divina di un fato ineluttabile che non c’è né si vede sia quella, onnipresente, di una macchina da presa che si fionda su attori e personaggi dando l’idea di amarli tutti, uno per uno e indistintamente. Ad associare luce divina e luce cinematografica, dopotutto, ci avevano già pensato i fratelli Coen di recente nell’incredibile finale di Ave, Cesare.
Qualsiasi cosa graviti davanti all’occhio di Kechiche (non solo i sederi femminili, per l’amor di Dio), ogni sorgente di vita, nascita e piacere esistente in natura diventa così un miracolo prezioso e strabiliante, una scarica elettrica di emozione, un amplesso che sa di eternità: da un corpo femminile di impudica sensualità a un agnellino accompagnato dalle note di Mozart, passando per una mamma che allatta il proprio neonato agli occhi lucidi e ambrati del protagonista Amin, resi palpitanti da un riflesso struggente al quale è davvero difficile dare un nome. Per non parlare della naturalezza di ogni singolo istante di un film nel quale gli attori, come sempre nel cinema di Kechiche, sono scelti con precisione millimetrica e non danno mai l’impressione di recitare.
Sia chiaro: Mektoub, My Love: Canto Uno è un film che richiede tutto il tempo del mondo (dura tre ore, ma ne potrebbe durare anche cinquanta) per godere della semplicità e della naturalezza sconcertanti dello sguardo del suo autore, che ancora una volta lavora alle proprie immagini come fossero argilla da modellare all’infinito, rimandando il più possibile la separazione. In attesa, naturalmente, del Canto Due e Tre.
Qui la nostra sezione dedicata alla 74esima Mostra del Cinema di Venezia.
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