Trainato dal successo agli Oscar di Parasite, è arrivato per la prima volta nelle nostre sale cinematografiche grazie al distributore Academy Two Memorie di un assassino (Memories of Murder) di Bong Joon-ho, capolavoro del regista sudcoreano datato 2003 e distillato purissimo del talento di questo grande cineasta (la sua uscita però, va detto, era prevista ben prima del trionfo di Parasite all’ultima edizione degli Academy Awards). Siamo nella Corea del Sud del 1986: Park Doo-Man (Song Kang-ho), detective di un piccolo paese di campagna, Hwaseong, con al suo fianco un collega di Seoul di nome Seo Tae-Yoon (Kim Sang-kyung), si ritrova a indagare sullo stupro e la morte di una ragazza, inciampando in un catena di violenza e dolore a tinte fosche.
A partire dal romanzo Come and See Me di Kim Kwang-rim e basandosi sulla storia vera del primo serial killer coreano conosciuto (arrestato solo nel corso del 2019, non molti mesi fa), Memorie di un assassino è un film duro e scabro, un’opera seconda nella quale Bong condensa già la matrice di un cinema di grande spessore: l’acutezza delle sue scelte formali è di estrema raffinatezza, ma non ci si ferma mai alla perfezione della confezione, alla messa a fuoco di un contesto sordido e alla sinuosa messa a punto delle prerogative del thriller, portato in questo caso ai massimi livelli di efficacia ed eleganza.
Come spesso accade nel cinema di Bong Joon-ho, infatti, il contenitore di genere ha in sé il cuore del discorso, la forma è sostanza, le modulazioni usate per arricchire la narrazione racchiudono in se stesse le chiavi di lettura per approcciarsi al testo filmico. In Memorie di un assassino il lavoro d’astrazione e d’atmosfera sul poliziesco è il motore per scoperchiare il rimosso morale del paese in cui il film è ambientato. Un po’ come accadrà, tredici anni dopo, in Parasite, così minuzioso e così folgorante nel fare di quasi ogni sequenza un piccolo saggio di messa in scena della tensione e delle tante polarizzazioni di oggi (a cominciare da quella più ovvia, feroce e novecentesca tra classi sociali).
I colori autunnali di Memorie di un assassino coincidono con il suo incedere narcolettico e disperato in colpe apparentemente frutto di una deformità omicida isolata e senza nome e in realtà spaventosamente condivise. Il lento e inesorabile processo investigativo di cui si narra somiglia infatti a un puzzle i cui pezzi faticano ad andare a posto, in un processo d’identificazione mancato tra vittime e carnefici dove non esistono vie univoche per accertare identità e responsabilità. Questa fascinazione quasi cubista per le zone d’ombra della verità, un concetto di per sé molto contemporaneo, fanno di Memorie di un assassino un film che a più di tre lustri di distanza dalla sua genesi non sembra affatto invecchiato e può essere considerato tutt’altro che a torto un prototipo per molto cinema a venire, anche americano (Zodiac di David Fincher, un altro film colossale su un serial killer sfuggente e prossimo al rompicapo, gli deve indubbiamente moltissimo).
Memorie di un assassino fu all’epoca un grosso successo di pubblico in Corea, a riprova della capacità di Bong di mettere in piedi racconti popolari sui generis in grado di toccare corde profondissime (basti pensare anche a un’altra sua hit al box office patrio come il monster movie The Host). Un chiaro segno d’intelligenza, acume e flessibilità per un regista che anche in Memories of Murder, come in Parasite, non lesinava ampie sverniciate d’ironia, tentando di contaminare il nero della sua storia con aperture più luminose e facendo coesistere disincanto, malinconia e risate a denti stretti. Memorie di un assassino, però, un posto assicurato nella storia del cinema del nuovo millennio ce l’ha anche per il suo sguardo in macchina finale: una dichiarazione d’impotenza e una resa al cospetto del collasso del reale che, una volta visto, non potrà più essere dimenticato.
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