Harper (Jessie Buckley) ha appena perso il marito, che si è suicidato dopo aver saputo che lei voleva il divorzio. Per esorcizzare il trauma, affitta un cottage in aperta campagna. La accoglie Geoffrey (Rory Kinnear, che interpreta tutti i personaggi maschili, ad eccezione del marito di Harper), il custode, che le mostra la casa, i dintorni, e le lascia le chiavi. Ma fin dal primo giorno qualcosa non va. Appena fuori dai boschi, accanto a un casolare abbandonato, Harper vede un uomo completamente nudo che la osserva, un altro spunta al fondo di una galleria tra i boschi e sembra seguirla, e un prete che si ferma a parlare con lei cerca di farla sentire in colpa per quanto accaduto a casa. E la vacanza è ancora lunga…
Titolare un horror sul maschilismo tossico Men, cioè nominare un’opera attraverso il suo messaggio, pone innanzitutto un problema di messa in scena, perché per evitare accumuli e pleonasmi il film deve in qualche modo negare se stesso, o comunque “tenersi testa”, a meno di non scegliere la strada del racconto morale, con tutti i limiti di queste operazioni, specie se parliamo di cinema di genere.
Alex Garland, al terzo lavoro da regista dopo Ex-Machina e Annientamento, lavora allora su immagini che portano progressivamente lo spettatore fuori dalla sua zona di comfort, così che Men possa agire per forze contrapposte, rassicurando nei contenuti ma destabilizzando nelle forme, tanto che anche il pubblico del Festival di Cannes (che si suppone mediamente più “preparato”) ha passato metà del minutaggio – disarmato e un po’ isterico – sghignazzando di fronte a immagini che non hanno nulla di comico. Manifestando quindi un vero e proprio problema di decodifica dell’apparato visivo nonostante il film gli fosse stato spiegato fin dal titolo, e poi confermato attraverso una sinossi elementare.
Come arriva, Garland, a questo esito? Evidentemente il suo cinema continua a legarsi alla corrente letteraria del New Weird e in particolare al lavoro di Jeff Vandermeer, direttamente adattato nel precedente Annientamento e qui nuovamente fonte di ispirazione nelle ibridazioni tra carne e vegetazione, e nella rappresentazione della Natura come sistema di forze arcaiche e malevole. Ma c’è di più, per esempio un lavoro sullo straniamento ottenuto con l’illuminazione e un grande lavoro scenografico, e che porta dritto alla serie classica di Ai Confini della Realtà, con le stesse location che a volte appaiono realistiche e subito dopo sembrano il plastico di un trenino. E ancora il gore, e il body horror, con un finale degno di Society di Brian Yuzna, che di nuovo toglie il terreno sotto ai piedi del pubblico ben disposto, in ascolto della parabola progressista.
È un bel giro sulle montagne russe Men, conferma Garland come il più talentuoso tra i nomi del prestige horror (assieme ad Ari Aster, meglio di Jordan Peele e meglio di Robert Eggers, se chiedete a me), e si toglie la soddisfazione di dimostrare che si può ancora fare cinema di genere progressista, dentro le mini-major come A24, senza essere dozzinali nella produzione delle immagini.
Foto: DNA Films, A24
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