Mia Martini è stata senza ombra di dubbio, insieme a Mina, l’interprete più profonda e sfaccettata della musica leggera italiana. Una cantante rabbiosa e commossa, attraversata da un’esistenza piena di tormenti che ha portato in molti, per grettezza e probabilmente per invidia, a bollarla come una presenza iettatrice, come un gatto nero da scansare.
Questa fusione possente tra arte e vita ha reso la sua esperienza artistica uno dei tasselli fondamentali di quell’autobiografia nazionale e sentimentale che solo la musica, e in particolare certa musica popolare, può restituire e fissare nell’immaginario collettivo: per tutti Mia Martini è stata l’artista schietta e anti-conformista che ha legato il suo nome a brani memorabili come Piccolo uomo, Gli uomini non cambiano, E non finisce il cielo e l’indimenticabile Minuetto, cucitale addosso su misura da Franco Califano e in assoluto il suo 45 giri più venduto, che la fece conoscere in tutta Europa fino ad accostarla, in Francia, a Edith Piaf.
Era dunque impresa ardua quella del biopic Mia Martini – Io sono mia, prodotto da Rai Fiction e per la regia di Riccardo Donna. Una sfida che, nonostante il rischio del bignami sia sempre dietro l’angolo, può dirsi però complessivamente vinta. Perché la sincerità e la commozione dell’operazione sono indubbie, così come filologica, nonostante le esigenze di semplificazione e di sintesi, è l’adesione a un vissuto umano e artistico, privato e sentimentale.
Vediamo la vita di Domenica Berté, che prese il suo nome d’arte dall’attrice Mia Farrow e dal noto drink, scandita in flashback, a partire dal countdown delle ore che separarono Mia Martini dall’esibizione a Sanremo ’89 con l’indimenticabile Almeno tu nell’universo. Con dentro, naturalmente, tutto o quasi: le polveri e gli altari, i giornalisti e i manager, le dicerie e le passioni, dagli anni d’oro al declino e all’addio alle scene, dall’Olympia di Parigi alla sagra della pizza fritta (glissando, pudicamente, sulla tragica morte). Con addosso il dolore e l’energia di sempre, riversati in una voce dall’estensione sovrumana.
L’esistenza di Mimì, nomignolo confidenziale col quale è e rimane nota a molti, è trasposta in maniera accorta anno dopo anno, con la consulenza delle sorelle Loredana e Olivia a fare da garanzia. Non ci sono tuttavia Ivano Fossati, grande e tormentato amore della sua vita, e l’amico di lunga data Renato Zero, che hanno preferito non comparire e non concedere l’autorizzazione per essere rappresentati.
Un limite non da poco, aggirato attraverso il ricorso a due personaggi paralleli (un fotografo e un compagno di scorribande più simile a un giovane David Bowie), che però non inficia la spudoratezza accorata del prodotto e il suo intimo desiderio di riportare alla ribalta non solo una voce unica e irripetibile ma anche gli umanissimi tormenti che contribuirono a renderla così grande ed esposta all’empatia del grande pubblico.
Oltre alla Mia Martini fragile e abbandonata a se stessa, che amava Aretha Franklin ed Ella Fitzgerald, emerge infatti anche la bestia ferita tramortita dal rapporto problematico col padre e con degli amori sempre gestiti a mani nude, con quella maledetta tendenza a donarsi completamente agli altri, senza alcuna distinzione di sorta tra gli ascoltatori della sua musica e coloro che le gravitavano intorno.
Un’arma a doppio taglio che la protagonista Serena Rossi si prende il coraggiosissimo rischio di incarnare, aderendo con umiltà e verosimiglianza alla mimica di Mia Martini e all’autarchia evocata dal titolo (se lo leggiamo con l’aggettivo possessivo al posto del nome proprio). Ma anche alle sigarette fumate una dopo l’altra, alla risata nervosa e alle smorfie che le abbruttivano il volto tanta era la forza delle sue interpretazioni (un aspetto di cui la cantante era perfettamente consapevole, e sul quale ironizzava spesso lei stessa).
Esattamente come il De André di Luca Marinelli di un anno fa, la sua interpretazione non è un’imitazione scivolosa ma una re-interpretazione dedita e affettuosa, in grado di sospendere l’incredulità a dispetto degli ovvi limiti vocali. Perché nonostante la Rossi sia un’ottima cantante, il timbro sporco e graffiante della Martini rimane un miraggio inarrivabile, e difficilmente poteva essere altrimenti.
Quello che viene fuori è un ritratto di tristezza e malinconia femminile a tutto tondo, scenograficamente curato, arricchito da ninnoli d’epoca e apparizioni fulminee (tra cui spicca l’ottimo Califano di Edoardo Pesce). Schietto come una confessione postuma e vibrante, con gli occhi lucidi e a cuore aperto, e corredato dal piacere di ritrovarsi intorno a un’emozione condivisa.
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