«Devo tutto ai miei genitori». Questo è il messaggio che Michael Keaton ha voluto pronunciare forte e chiaro alle premiazioni degli ultimi Golden Globes dove si è aggiudicato il riconoscimento come migliore attore per la commedia (nera) Birdman (o l’imprevedibile virtù dell’ignoranza). «A casa mia ho imparato a lavorare sodo, a non gettare la spugna, ad apprezzare e ringraziare per ogni cosa, oltre ad avere, sempre, un certo senso dell’umorismo».
Ultimo di sette figli, l’attore ci tiene a sottolineare il ruolo della sua famiglia nel percorso faticoso che lo ha portato alla notorietà. Noi lo incontriamo al Festival di Venezia e lì trasuda energia e ha voglia di parlare: ogni sua risposta corrisponde a un flusso libero di pensieri, incisi, ricordi e paragoni (è un maestro in questo). Il suo volto è stato ripulito dal pizzetto che porta sullo schermo; a dire vero l’uomo che siede di fronte a noi non ha proprio nulla a che vedere – fisicamente parlando – con il personaggio che interpreta. E nemmeno caratterialmente, come ci conferma lui stesso: «Non mi somiglia affatto, abbiamo una personalità completamente diversa. Anche se, certo, sono un essere umano e condivido alcuni suoi sentimenti, soprattutto le paure. Ma non ho mai vissuto così, sono stato decisamente più fortunato». Nonostante anche la carriera di Keaton sia decollata grazie alle ali di un supereroe – Batman, serve dirlo? – non ne è mai rimasto imprigionato, o peggio ancora ossessionato, come accade al protagonista di Birdman, che dopo essere caduto nel dimenticatoio di Hollywood cerca un riscatto (e un nuovo consenso) a teatro.
Best Movie: Quindi Batman non è mai diventato il tuo Birdman?
Michael Keaton: «Non posso dire che mi stia appollaiato sulle spalle come Birdman fa con Riggan, ma certo quel ruolo ha avuto un peso fondamentale nella mia carriera. Prima ero un attore conosciuto solo negli Stati Uniti, poi sono entrato a far parte di un fenomeno internazionale».
BM: Quando te l’hanno proposto, non hai pensato: “Sono l’uomo giusto per questo ruolo. Solo io posso interpretarlo”?
MK: «Non mi ricordo esattamente cosa mi è passato nella mente in quel momento, ma non quello. Però sapevo come affrontarlo e l’ho detto subito ad Alejandro. È stato strano, perché non avevo bene idea della strada da intraprendere ma ero sicuro di poter arrivare all’obiettivo. È la stessa cosa che provo quando devo usare il GPS; in realtà capita rarissime volte, perché mi fido più del mio istinto che della tecnologia. Le volte che lo uso finisco per imprecarci contro».
BM: Che cosa ti ha affascinato di Birdman, tanto da decidere di prenderne parte?
MK: «La sfida che rappresentava. In genere quando devo valutare un copione guardo a quanto riesce a spaventarmi. E ovviamente tengo sempre in considerazione anche il regista: mi piace lavorare con talenti che sanno portarti dove vogliono loro. È stato così con Tim Burton – ha una creatività talmente geniale che quando sei dentro a un suo progetto, pensi: “Adoro respirare quest’aria” – ed è successa la stessa cosa con Iñarritu. Lui ha chiesto a ciascuno di noi di andare oltre i nostri limiti e uscire dalla “comfort zone”».
BM: Ti riferisci soprattutto al fatto che il film è girato come un unico piano sequenza?
MK: «Sì, un’esperienza nuova, molto impegnativa, ma anche divertente. È come quando vai a sciare e ti capita di fare un salto che ti toglie il fiato, e pensi: “Wow, che figata!”, anche se in quel momento non stai benissimo. Lo stesso sul set: spesso succedeva di non avere il pieno controllo su quanto stava accadendo, né sapevo dove quella determinata sequenza mi avrebbe portato. Ma ogni volta era una soddisfazione. Non avevi tempo per annoiarti».
BM: Come sei riuscito a controllare l’interpretazione, laddove la “pazzia” del personaggio ti avrebbe invece concesso di eccedere?
MK: «È tutta una questione di istinto. E naturalmente è stato fondamentale anche il confronto con il regista. È lui il capitano della nave, colui che ha la visione completa della storia. Noi attori ne siamo solo la voce e il corpo narrante. È chiaro che ognuno ha una sua opinione, ma credo che il nostro mestiere sia anche quello di lasciarsi guidare. Poi più vai avanti con le riprese, più acquisisci naturalezza e consapevolezza. Anche se ammetto che a fronte di scene dove sapevo esattamente quanto dovevo essere arrabbiato o felice, ce ne sono state altre che ho sottovalutato, e finché non le ho girate non avevo idea di quello che avrebbero comportato».
BM: Immagino che quella in cui ti ritrovi in mutande in mezzo a Times Square sia una di queste.
MK: «Proprio così, uno di quei casi in cui ho letto lo script superficialmente. È stato totalmente folle. Mi ricordo solo di aver detto ad Alejandro: “Non rischio di essere ridicolo?” E lui: “Non ti preoccupare, vedrai che troverai il modo di non esserlo”. Poi quando è stata ora di girare e mi sono ritrovato praticamente nudo e con quelle stupide calzette nere ai piedi ho pensato: “Ma che ca**o!”. Di fronte a certe situazioni scatta qualcosa in noi attori per cui superiamo l’imbarazzo e qualsiasi forma di resistenza, e facciamo cose che mai avremmo immaginato».
BM: Il tuo personaggio in un certo senso tenta di dimostrare qualcosa a se stesso e agli altri. Tu hai mai sentito il bisogno di farlo, nella vita?
MK: «Certo, credo sia fisiologico. Fin da bambino ho praticato parecchi sport, perché mi è sempre piaciuta l’idea di squadra e la competizione: non puoi mai farti trovare impreparato. E poi ho dovuto dare prova di me come padre, marito, amico, cittadino. Però non sono uno di quelli che cerca il consenso ad ogni costo, anche se ovviamente preferisco essere amato piuttosto che odiato (ride). In questo senso non assomiglio a Riggan: non ho mai bramato quel tipo di approvazione. E sono anche consapevole di aver scelto un lavoro dove sono continuamente sotto giudizio: probabilmente se fossi un idraulico nessuno mi citerebbe mai su Twitter. E ci mancherebbe; io risponderei: “Che volete? Sono solo un idraulico!”».
BM: A proposito, com’è il tuo rapporto con i social network?
MK: «Ne sono affascinato, ma sono troppo pigro. Ogni tanto uso Twitter, Facebook al momento no – aspetto ancora qualcuno che me ne mostri le meraviglie –, mentre trovo Instagram molto divertente, anche perché adoro la fotografia».
BM: Be’, da questo punto di vista sei più avanti rispetto a Riggan.
MK: «Ti riferisci alla scena in cui sua figlia lo rimprovera duramente, ribadendogli che oggi se non sei connesso non esisti? Sembra fantascienza eppure trovo che sia una sequenza meravigliosa proprio per la sua crudeltà. E la sua verità. Sam lo fa sentire una merda, e lui ne esce umiliato. Ogni volta che parlo di queste cose mi viene in mente la serie tv Portlandia – divertentissima – e in particolare una puntata in cui il protagonista non riconosce la sua migliore amica dal vivo, perché è abituato a comunicare con lei solo tramite Facebook. I social network innescano dei meccanismi malati… ma alla fine è questo che ti cattura».
BM: Questo film affronta anche il tema della fama. Guardandoti indietro che ricordi hai degli anni ’90 in cui eri uno dei nomi più quotati di Hollywood?
MK: «Il discorso della carriera è relativo. Dico che per me sono stati soprattutto anni divertenti».
BM: Nessun rimpianto per non aver accettato di fare il terzo Batman?
MK: «No, ho fatto i primi due perché trovavo il progetto molto buono e ho sempre subito il fascino dell’Uomo Pipistrello: è un personaggio che appartiene alla cultura pop e ha un appeal diverso rispetto a molti altri. Credo che Tim con Batman e Batman Returns sia riuscito a reinventare il concetto di supereroe dark e a conferirgli una doppia personalità molto interessante, che nel terzo sarebbe venuta meno. Il suo lato oscuro sarebbe stato smorzato, per questo rifiutai».