Strano il destino dei film usciti nelle fasi di transizione culturale. Prendete il caso di Flatliners (Linea mortale da noi), sesto film di Joel Schumacher, uscito nel 1990, in un periodo in cui Hollywood stava iniziando a liberarsi degli stilemi degli anni Ottanta e lavorava per creare una nuova generazione di autori e volti.
La pellicola fu un grosso successo mondiale, diede la prima consistente spinta alla carriera di Julia Roberts (che quello stesso anno sarebbe esplosa con Pretty Woman) e di William Baldwin, e consolidò quella di Kiefer Sutherland e Kevin Bacon. Naturalmente, fece molto bene anche al regista, Joel Schumacher, che dopo St. Elmo’s Fire e Ragazzi perduti, due hit di metà del decennio precedente, riusciva a mettere a segno un altro centro, garantendosi una posizione di primo piano. Eppure, oggi, è un film praticamente dimenticato, che non si riesce a collocare bene da nessuna parte. In termini visivi e di colonna sonora, si potrebbe ascrivere a quel cinemavideoclip figlio di MTV che impazzava negli anni Ottanta (e di cui Adrian Lyne e Tony Scott erano i migliori esponenti), ma, a differenza di quel tipo di film, il suo ritmo è più disteso, più naturale e meno grottescamente enfatico.
Come atmosfere, anticipa la moda darkgoth che avrebbe dominato gli anni Novanta, ma non ne sposa in pieno il nichilismo e lo squallore. In poche parole, è come Balto: non è cane ma non è neanche lupo, e per questo, oggi, si fa prima a tralasciarlo che a ricordarsene, al punto che persino la sua scheda Wiki inglese è particolarmente avara di informazioni. Ed è un peccato, perché è davvero un buon film che meriterebbe di essere riscoperto. Partiamo dallo script di Peter Filardi , che si basa su un’idea bella e semplice (un gruppo di studenti di medicina che decide di scoprire se c’è vita dopo la morte… uccidendosi), capace di mescolare il Frankenstein di Mary Wollstonecraft Godwin Shelley con le atmosfere dei romanzi di Stephen King, tirando fuori una sceneggiatura che potrebbe scivolare facilmente nel terreno dell’horror o del thriller paranormale, ma che, invece, trova un miracoloso equilibrio tra le sue suggestioni soprannaturali e la plausibilità scientifica.
Passiamo poi alla regia di Schumacher, che nella collaborazione con quel genio della fotografia di Jan de Bont, trova la quadra perfetta, portando il suo stile a un apice che poi non riuscirà mai più a ripetere. Tutto funziona, sia nella grammatica del film (che alterna momenti solidamente classici ad altri più sperimentali, soluzioni da videoclip a ralenti vecchia scuola), sia sotto il profilo estetico dove de Bont, grazie agli splendidi (gotici, vittoriani e del tutto assurdi) set creati da Anne Kuljian e all’incredibile lavoro di direzione artistica di Jim Dultz, può esprimersi al meglio, dando vita a una fotografia capace di fare una crasi tra la luce dei quadri Caravaggio e i neon di una discoteca.
Poi ci sono gli splendidi abiti scelti da Susan Becker (capace di trasformare il film in una sorta di rivista di stile e tendenze), la bella e suggestiva colonna sonora di James Newton Howard, che mescola momenti sinfonici a schitarrate metal e, infine, un gruppo attoriale non solo bello e carismatico, ma pure pieno di talento e intensità, dove su tutti svetta un Kiefer Sutherland che si diverte come non mai a portare sullo schermo un personaggio che altro non è che una rilettura moderna di Victor Frankenstein, affascinante quanto sgradevole, suadente quanto respingente, pieno di brillantissime luci, ma anche di ancora più profonde e terribili ombre.
La somma di tutti questi fattori genera un film pop praticamente perfetto, bellissimo a vedersi, bello a sentirsi, capace di inquietare e consolare al tempo stesso, pieno di immagini ricercate, soffuso da una luce magica e molto appassionante. Una pellicola assolutamente perfetta per il suo tempo che funziona bene anche oggi, come una rivista di moda patinata e raffinatissima, emersa da qualche vecchio scatolone, che ti ritrovi a sfogliare e ammirare, oggi come allora.
Ma è un classico? Dal mio punto di vista, sì, ma è un classico di un momento transitorio del cinema e, per questo, meno significativo di altri film del decennio precedente o di quello successivo, forse meno riusciti, ma più simbolici dei loro anni. Vale comunque la pena riscoprirlo e, con esso, di riscoprire un regista bravissimo come Joel Schumacher, messo purtroppo in ombra dalle due disastrose (ma lo sono poi davvero?) pellicole di Batman, ma capace di regalarci anche film come Un giorno di ordinaria follia, i già citati Ragazzi perduti e St. Elmo’s Fire, Il cliente, In linea con l’assassino e Flawless – Senza difetti.
3 Motivi per definirlo un classico:
- La meravigliosa fotografia di Jan de Bont.
- Lo stile registico di Joel Schumacher.
- Kiefer Shuterland.
© Shutterstock (1), Columbia Pictures, Stonebridge Entertainment (3)
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