Master & Commander – Sfida ai confini del mare è un film del 2003, diretto da Peter Weir (regista di Picnic ad Hanging Rock, Witness – Il testimone, Mosquito Coast, L’attimo fuggente, The Truman Show), interpretato da un Russell Crowe all’apice della fama (tre anni prima era stato Massimo Decimo Meridio nel Gladiatore di Scott) e una promessa futura come Paul Bettany (che qualche anno dopo sarà Vision per la Marvel), e basato su una serie di 21 romanzi di enorme successo, scritti tra il 1969 e il 2000 da Patrick O’Brian.
Sulla carta, questa storia di uomini d’acciaio e navi di legno che se le danno di santa ragione nelle guerre marittime tra l’Inghilterra di Giorgio III e la Francia di Napoleone, era un successo già scritto: un regista bravissimo, amato da pubblico e critica, il divo del momento, una grande storia basata su degli ottimi romanzi molto popolari. Invece, le cose andarono diversamente e la pellicola non brillò sul mercato interno americano, recuperando qualcosa su quello estero, distinguendosi in particolare in Italia, che la premiò con un ottimo incasso.
Risultato: a fronte dei 150 milioni spesi per realizzarla (senza contare le spese per la promozione), il film si portò a casa, complessivamente, 211 milioni. Appena il necessario per rientrare dell’investimento. E questo, nonostante la critica del periodo ne parlò in maniera entusiastica e gli regalò ben 10 candidature ai premi Oscar (ne vinse due: miglior fotografia, di Russell Boyd, e miglior sonoro). Cosa andò storto, allora?
All’epoca, le cause del fallimento vennero imputate al periodo storico trattato, poco conosciuto e di scarso interesse per il pubblico americano. In parte è sicuramente vero, anche se oggi gli analisti sostengono che l’insuccesso del film fosse derivato, principalmente, da un cast interamente maschile, senza alcuna concessione romantica, e che questo ne aveva pregiudicato l’interesse del pubblico femminile (come se le donne fossero incapaci di apprezzare dei film a prescindere se a schermo ci siano altre donne o meno). Quello che, comunque, gli addetti ai lavori sembrano oggi ignorare è che la reputazione della pellicola di Weir, con il passare degli anni, è enormemente cresciuta (il film gode di un ottimo 80% di apprezzamento da parte del pubblico su Rotten Tomatoes, con oltre centomila commenti) e che non passa anno senza che gruppi di fan non ne chiedano a gran voce un sequel o un prequel. Si potrebbe dire che la cosa è spiegabile facilmente con il fatto che è un film bellissimo e che basta vederlo per innamorarsene.
Ma andiamo un poco oltre: perché è bellissimo? Prima di tutto, per il grande lavoro di scrittura fatto dallo stesso Weir (assieme a John Collee) che, operando un sapiente taglia e cuci di tanti momenti diversi dei romanzi di O’Brian, è riuscito a creare una storia coerente e autonoma, che non “comincia” e non “finisce” (troviamo i personaggi già impegnati in una missione nei mari del Sud e la missione non si conclude al termine del film), ma che racconta tutto quello che allo spettatore serve sapere sugli straordinari personaggi del capitano Jack “il fortunato” Aubrey e del suo dottore di bordo e miglior amico, Stephen Maturin. E sul loro mondo che, di fatto, è circoscritto alla nave su cui solcano i mari, la Surprise, una piccola e vecchia fregata da 32 cannoni. E qui viene la grande intuizione di Weir, che fa dire a Russell Crowe che quella singola nave, spedita sulle acque del Pacifico all’inseguimento di una ben più prestante nave corsara francese (che, a sua volta, la insegue), rappresenta l’Inghilterra stessa. Che, nel sottotesto metafilmico, significa che quella nave è il film stesso. E, in effetti, non c’è null’altro nella pellicola perché, a parte una brevissima parentesi su di un atollo spoglio e roccioso, tutta l’opera di Weir è ambientata su quel vecchio legno inglese (certosinamente ricostruito in scala uno a uno nella piscina dei Baja Studios, quella progettata da James Cameron per rendere possibile il suo Titanic), che diventa, sostanzialmente, il palcoscenico di un teatro.
Ma attenzione, detta così potreste pensare che il film sia piuttosto statico. Invece Weir fa letteralmente volare la sua cinepresa sia attorno al vascello che al suo interno, riuscendo a coniugare la sua consueta classe ed eleganza evocativa, con la spettacolarità.
A questo aggiungiamoci le interpretazioni di tutto il cast ma, soprattutto, di Crowe e Bettany, che in Aubrey e Maturin trovano le loro interpretazioni della vita, intercettando splendidamente il cuore, la mente, lo spirito e il corpo dei personaggi (straordinari) immaginati da O’Brian.
Della bellissima fotografia (livida e desaturata, ma mai fredda) di Boyd ne abbiamo già parlato, ma non abbiamo fatto cenno alla splendida colonna sonora, che alterna alle belle composizioni di Iva Davies, Christopher Gordon e Richard Tognetti le musiche diegetiche di Boccherini.
Insomma, non c’è un elemento di Master & Commander che non sia splendidamente curato (basti guardare la ricostruzione del periodo storico e della vita a bordo di una nave da guerra, quasi maniacale per il livello di dettaglio) e portato a schermo non solo con maestria, ma con passione e amore. Passione e amore che donano al film quel calore da farne un classico del cinema che deve essere conservato e riscoperto, anno dopo anno. Personalmente, lo metto tra i miei film preferiti di ogni tempo e lo rivedo con sorprendente frequenza.
Per questo penso che solo tre motivi per definirlo un classico non bastino, ma ne servano almeno il doppio.
6 MOTIVI PER DEFINIRLO UN CLASSICO
- La regia elegante e spettacolare.
- La sua atmosfera sospesa.
- L’interpretazione di Crowe e Bettany.
- La fotografia di Russell Boyd.
- La ricostruzione storica.
- La colonna sonora.