Prima di Reacher, prima di Logan, prima di tutto: Shane
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Prima di Reacher, prima di Logan, prima di tutto: Shane

Prima di Reacher, prima di Logan, prima di tutto: Shane

Con il cavaliere della valle solitaria, andiamo alle origini del mito americano dell’eroe senza passato e senza futuro, che sembra misteriosamente attratto dai guai  l successo internazionale della serie Reacher, tratta dai romanzi di Lee Child (che sono stati anche la base per due film con Tom Cruise come protagonista) mi ha portato a riflettere sull’importanza nella cultura popolare di un archetipo che pare immortale: quello dello straniero venuto da nessun luogo e diretto verso nessun luogo che, nel suo vagabondare, si ferma in un posto a caso dove viene coinvolto in qualche guaio, lo risolve raddrizzando tutti i torti che incontra, per poi riprendere il proprio cammino.

Senza stare a scomodare Omero e il suo Ulisse, possiamo dire che questa figura, per quanto riguarda il cinema e la televisione, nasce da un film che per gli americani è un classico senza tempo che tutti hanno visto (o di cui hanno almeno sentito parlare), ma che in Europa è molto meno popolare: Shane (Il cavaliere della valle solitaria qui da noi).

Tratto dal romanzo omonimo di Jack Schaefer (da tempo introvabile in Italia), il film esce nelle sale americane nel 1953, per la regia dell’inossidabile (e bravissimo) George Stevens, con Alan Ladd nel ruolo del protagonista (Shane, appunto) e Jack Palance in quella del cattivo e si segnala subito per alcune innovazioni tecniche di cui è portatore, a cominciare dal gargantuesco formato widescreen, per finire con l’utilizzo dei cavi per accentuare l’impatto dei colpi delle armi da fuoco sulle loro vittime. In sostanza, quando qualcuno viene centrato da un proiettile in Shane, non si limita ad accasciarsi a terra come era la norma nel cinema di quel tempo ma viene sbalzato via dalla violenza dell’impatto.

Secondo molti critici (e secondo un certo Sam Peckinpah, uno che di certe cose se ne intendeva parecchio), questo elemento è stato il primo passo per quella estetizzazione e spettacolarizzazione della violenza che segnerà il genere western da quel momento in poi (e, di conseguenza, il cinema tutto). La trama è presto detta: un misterioso pistolero stanco di uccidere e alla ricerca di una vita migliore, arriva in una fattoria isolata nel Wyoming dove viene assunto come bracciante da una famiglia di coloni tenuta sotto scacco da un losco proprietario terriero che vuole mettere le mani sulla loro terra. Il resto è facilmente prevedibile: Shane, incapace di restare con le mani in mano davanti alle angherie subite dalle persone che lo hanno accolto in casa loro senza fare domande sul suo passato e, forse, in cerca di una qualche redenzione personale, impugnerà nuovamente le pistole per porre fine alle ingiustizie. Nel finale, il nostro cavaliere della valle solitaria si allontanerà verso l’orizzonte, forse ferito a morte, forse no, mentre il piccolo Joey gli urlerà dietro: “Shane, Shane, come back!”. Tutto qui. 

Ma allora, perché il film viene ritenuto il sessantanovesimo miglior film di tutti i tempi (e il terzo, nella categoria western) secondo l’American Film Institute? Credo che le ragioni siano due. La prima è abbastanza ovvia: per come Shane è scritto e girato, con il suo stile narrativo asciutto che lascia ampio spazio all’esaltazione degli immensi scenari in cui è ambientato. La seconda è per la sua straordinaria purezza narrativa, così essenziale e iconica da diventare archetipica e farsi seminale non solo per il genere a cui appartiene o per il linguaggio cinematografico in generale, ma per la cultura americana tutta. In poche parole, Shane, al pari di High Noon (Mezzogiorno di fuoco), di The Searcher (Sentieri selvaggi), di Stagecoach (Ombre Rosse) e Rio Bravo (Un dollaro d’onore), contribuisce a definire la mitologia americana. E non è un caso che la struttura narrativa di Shane sia stata ripresa da tanti film, passati e moderni, a qualsiasi latitudine.

Il meraviglioso Yojimbo di Akira Kurosawa è uno Shane giapponese (e, di conseguenza, Per un pugno di dollari non è altro che la sua emanazione all’italiana) ma anche, per venire ai tempi moderni, il Logan di James Mangold non è altro che uno Shane in salsa supereroistica (e infatti il film di Stevens viene citato apertamente più volte nella pellicola sul mutante canadese). Questo sorvolando sull’infinita pletora di serial televisivi che da The Fugitive (Il Fuggiasco da noi) in poi, hanno usato Shane come fosse una cartolina tornasole. Questo fino ad arrivare alla recentissima serie di Reacher, da cui abbiamo preso le mosse.

In poche parole, Shane di George Stevens non è solamente un classico perché capolavoro essenziale di un grande regista, ma perché opera imprescindibile del mito formativo americano. Se vi dovesse venire voglia di vederlo (o rivederlo, cosa che io faccio sorprendentemente spesso), lo trovate a noleggio e in vendita su Apple TV e Amazon Prime Video.

3 MOTIVI PER DEFINIRLO UN CLASSICO

–            LA SCENEGGIATURA PERFETTAMENTE CALIBRATA E SEMINALE DI A. B. GUTHRIE JR. E JACK SHER.

–            LA REGIA ESSENZIALE E, AL TEMPO STESSO, MAESTOSA, DI GEORGE STEVENS, NOBILITATA DALLA STRAORDINARIA FOTOGRAFIA DI LOYAL GRIGGS.

–            ALAN LADD CHE CERCA DI ESSERE PIÙ ALTO DI QUELLO CHE È… RIUSCENDOCI.

 

© Paramount Pictures

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