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Ryan Gosling, Nicolas Winding Refn e uno splendido compromesso

Come un attore non ancora asceso all’Olimpo dello star power e un cineasta sconosciuto a Hollywood hanno fatto di Drive un cult che sembra la versione moderna de Il cavaliere della valle solitaria

Ryan Gosling, Nicolas Winding Refn e uno splendido compromesso

Come un attore non ancora asceso all’Olimpo dello star power e un cineasta sconosciuto a Hollywood hanno fatto di Drive un cult che sembra la versione moderna de Il cavaliere della valle solitaria

Uscito nel 2011, l’ottavo film di Nicolas Winding Refn è anche la sua prima opera che, oltre ai plausi della critica (che Refn ha sempre avuto, sin dai tempi di Pusher), ottiene anche grande riscontro presso il pubblico massificato, quello in grado di decretare il vero successo commerciale e mondiale di una pellicola.

Il perché è presto detto: Ryan Gosling. E questo non per lo star power dell’attore (ancora non asceso all’Olimpo in quegli anni) quanto, piuttosto, perché è stato proprio Gosling a definire il film per come lo conosciamo.

Andiamo con ordine e cominciamo dall’inizio.

Nel 2005, James Sallis pubblica un thriller che racconta la storia di un driver, un conducente specializzato in attività criminali. Avete presente quello che aspetta in auto mentre i rapinatori fanno il colpo in banca? Lui. L’idea non è originalissima (lo stesso tipo di character era stato trattato più volte tanto in letteratura quanto al cinema e in televisione), ma l’approccio di Sallis è anomalo perché decide di raccontare la storia quasi sotto forma di poemetto, seguendo una narrazione degli eventi non lineare. È un piacevole esercizio di scrittura poetica applicata, però, al genere crime.

Il romanzo viene opzionato e la stesura della sceneggiatura affidata a Hossein Amini che, per quanto colpito dalla qualità del testo originale, decide che non può essere adattato così per come è scritto e quindi opera una sostanziale normalizzazione della storia, optando per una narrazione lineare, mantenendone, però, inalterata la natura del protagonista: un antieroe senza nome e dal passato oscuro che finisce per essere coinvolto nei guai di una famiglia, si innamora della moglie e mamma ed è costretto a raddrizzare qualche torto, ricorrendo alla vecchia e cara ultraviolenza. Alla fine, si allontana verso il tramonto, forse ferito a morte, forse no. In sostanza, Il cavaliere della valle solitaria, ma ambientato ai giorni nostri e a Los Angeles.

Lo script viene inizialmente affidato a Neil Marshall, con Hugh Jackman come attore protagonista. Poi, come spesso accade a Hollywood, tutto sfuma e il progetto sembra morto, fino a che Marc Platt e Adam Siegel (i due produttori) non hanno la buona idea di sottoporre lo script a Ryan Gosling, attore non ancora diventato un divo, ma già indicato da tanti come futura star. Gosling si innamora del personaggio e della storia, ma apporta parecchie modifiche (sua, per esempio, l’idea di farne uno stuntman e sempre sua l’intuizione di creare la sua personalità, modellandola su figure cinematografiche amate dal protagonista, come Clint Eastwood e Steve McQueen). Ma, più di ogni altra cosa, il maggior merito dell’attore è l’aver suggerito ai produttori il nome di un regista largamente sconosciuto al giro hollywoodiano: Nicolas Winding Refn. Che, però, non è per nulla detto che accetti di salire a bordo di un progetto già avviato, con lo script pronto e il ruolo del protagonista (e di alcuni ruoli secondari) già affidato.

Refn è un autore, non fa film su commissione, di solito. E, di nuovo, è Gosling a convincerlo, mandandogli una lettera piena di profonda ammirazione per il suo lavoro e di voglia di collaborare con lui. Con un budget di 15 milioni di dollari a disposizione e 8 settimane di riprese davanti, il film entra in produzione.

Gosling e Refn costruiscono la pellicola assieme, girovagando in auto, di notte, trovando location, definendo i costumi (è l’attore a scegliere il giubbotto iconico del protagonista, per esempio) e riscrivendone battute e scene direttamente sul set. È difficile capire dove finisca il lavoro di uno e inizi quello dell’altro. Per Gosling, il film diventa la sua piena e definitiva espressione attoriale e ancora oggi, a molti anni e film di distanza, il personaggio dello stuntman senza nome è ancora quello che più lo identifica. Per Refn, invece, Drive finisce per essere, al tempo stesso, il suo film più personale e meno personale. Perché, se da una parte lo stile del regista trova piena espressione nelle strade al neon fotografate da Newton Thomas Sigel, nella colonna sonora elettronica europop di Cliff Martinez e Johnny Jewel e nel montaggio di Matthew Newman, dall’altra parte la pellicola non è altro che una rilettura modernizzata di un capolavoro del cinema di genere come Driver l’imprendibile di Walter Hill, e per questo è un film facile, appassionante, pieno di azione e tensione, romantico, appagante. Tutte caratteristiche che non si rintracciano in nessuna delle opere precedenti del regista e in nessuna delle successive.

Drive, per Refn, è un film figlio di uno splendido compromesso tra la sua radicale visione artistica, la sensibilità del suo attore protagonista e i gusti del pubblico e, forse proprio per questo, è ancora oggi la sua pellicola più amata e quella per cui maggiormente viene ricordato.

Non sono certo che ne sia contento.

 

3 motivi per definirlo un classico:

  • È una versione moderna del Cavaliere della valle solitaria.
  • Refn definisce uno stile visivo e musicale che influenza il cinema ancora oggi.
  • Consacra Ryan Gosling a divo.

 

© Shutterstock (1), ilmDistrict, Bold Films, Madison Wells (3)

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