Roma. L’eclissi oscura il Sole in una torrida giornata d’estate. È il presagio del buio che avvolge Diana (Ilenia Pastorelli) quando un serial killer la sceglie come preda. La giovane escort, per sfuggire al suo aggressore, va a schiantarsi contro una macchina, perdendo la vista. Dallo choc Diana riemerge decisa a combattere per la sua sopravvivenza, ma non è più sola. A difenderla e a vedere per lei adesso ci sono Nerea, il suo cane lupo tedesco e il piccolo Chin (Xinyu Zhang), sopravvissuto all’incidente. Il bambino cinese con i suoi grandi occhi, la voce dolce dall’accento straniero, il carattere di un ometto indipendente e indifeso allo stesso tempo, la accompagnerà nella fuga. Ossessionati dal sangue che li circonda, saranno uniti dalla paura e dalla disperata ricerca di una via di scampo, perché l’assassino non vuole rinunciare alle sue prede. Chi si salverà?
Occhiali neri, presentato nella sezione Berlinale Special Gala del Festival di Berlino 2022, segna il ritorno dietro la macchina da presa di Dario Argento a dieci anni di distanza da Dracula 3D ed è un’operazione di riesumazione di toni e atmosfere da parte del grande maestro del thriller italiano degli anni ’70 e ’80, oltre che un evidente ripristino dell’idea di film di tensione che lo rese celebre. Il suo ventesimo titolo in filmografia arriva dopo diversi decenni di film appannati e stantii, unanimemente considerati non all’altezza del talento incendiario di un irripetibile creatore di angosce cinematografiche. Ed è un lungometraggio che, pur senza avvicinarsi ovviamente a quei fasti, non può che suscitare affetto e interesse, specie per i cultori della materia argentiana, che qui, per la gioia dei fan, torna finalmente a battere cassa, a imporre il suo marchio, a farsi sentire tangibilmente.
Il tutto con buona pace dei limiti di una sceneggiatura e ingenua e ridotta all’osso, sulla quale sarebbe sterile e ridondante soffermarsi e che a conti fatti è un mero, bozzettistico orpello nell’economia di un prodotto che mira a polverizzare la detection e il giallo alla base della storia per far risaltare stilizzazioni simboliche e ossessioni rituali care all’autore. L’incipit con eclissi e occhiali da sole strizza immediatamente l’occhio visivamente, come già il poster ufficiale, a Essi vivono di John Carpenter, che non ha fatto mistero di reputare Argento un amico, un pioniere e un regista libero come pochi. L’omaggio sfacciato non tarpa certo le ali a un prologo di grande fascino, ma palesa immediatamente la ricerca di un perturbante e sensuale corpo a corpo con lo spettatore, azzardando perfino delle vaghe suggestioni che riportano alla memoria l’inizio di Mulholland Drive e in cui tutti, ai balconi, sono forse ancora in lockdown, intenti a filtrare la realtà esclusivamente coi loro telefoni.
L’eclissi, in Occhiali neri, è una privazione dello sguardo dai contorni mitologici («Gli uomini dell’antichità avevano paura che le eclissi di sole fossero la fine del mondo», dicono i genitori a una bambina), qualcosa che già nella notte dei tempi spaventava terribilmente anche gli animali e che per Argento diventa una chiara e struggente accettazione del suo invecchiamento, del percepire il proprio sguardo perfino come sorpassato pur continuando a voler filmare, ancora una volta, dei traumi personali e universali. Magari dando loro una lingua e una forma all’interno di una narrazione essenziale e selvaggia, sviluppata da una prospettiva femminile e con dei ripiegamenti effettivamente familiari e autobiografici (l’istruttrice per non vedenti di Diana, Rita, è interpretata dalla figlia Asia Argento, che si è molto impegnata affinché il padre potesse realizzare questo film rimasto nel cassetto per molto tempo).
Occhiali neri in tal senso è probabilmente un perfetto film-congedo, un’opera che ha il sapore docile e senile del commiato ed è anche una summa, in minore, di tutto il cinema del regista, un catalogo affettuoso di bagliori e fantasmi del passato. Torna l’elemento della cecità, già convocato dal Karl Malden de Il gatto a nove code e il Flavio Bucci di Suspiria, la prima parte si muove con fare sinuoso ed espressionista tra le architetture riconoscibili e spettrali del quartiere romano dell’EUR, dov’era ambientato Tenebre, e ogni cosa, anche la menomazione fisica, è smussata e accarezzata dolcemente (tantissime e sintomatiche, in tal senso, le dissolvenze al nero). Come se la sopraggiunta perdita della vista da parte della protagonista e il non poter più vedere come una volta fossero – per lei e per il narratore che ne segue le traiettorie – la massima forma di privazione possibile e diciamo pure di decapitazione: un altro tòpos argentiano che qui è parimenti presente e quantomai spinto verso un sentire malinconico tanto cruento quanto cupo e struggente.
«Sei l’unica amica che mi è rimasta», dice Diana al suo cane nel finale in aeroporto, cercando un conforto ultimo proprio nella pacificazione con un regno animale che per tutto il film è rimasto acquattato e nell’ombra fino alla discesa agli inferi del finale nei boschi di Formello, sempre a Roma (dove si allena la Lazio, squadra di cui Argento è tifoso). In questo scenario emerge l’effettistica truce del solito Sergio Stivaletti e i cani, come in Rabbia furiosa – Er Canaro di quest’ultimo e in Suspiria, tornano anche ad azzannare: una fuga portata avanti da Diana – la dea della caccia, nomen omen – con passo incerto e barcollante, in un silenzio quasi religioso ma ugualmente mortifero. E con in sottofondo l’eco stritolante di una disperazione matrigna e feroce, sempre pronta colpire e ad avvilupparsi intorno al collo e alle gambe come un serpente letale. In puro, vivissimo stile Argento.
Foto: Urania Pictures, Getaway Films, Rai Cinema
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