Tre uomini che non si conoscono sono costretti, insieme alle rispettive famiglie, a condividere la stessa casa delle vacanze a causa di un disguido dell’agenzia di viaggi. Si chiamano Aldo, Giovanni e Giacomo e sono omonimi, nel nome e nel cognome, dei componenti del celebre trio comico, tornato finalmente ai livelli dei loro esordi dopo anni di film appannati e a quattro anni di distanza da un film, Fuga da Reuma Park, in cui sembravano concedersi una sorta di testamento mortuario del loro cinema. Sotto forma di luna park degli orrori, assediato dai resti decrepiti loro personaggi più celebri e dalle versioni anziane di se stessi.
Un esperimento interessante in chiave più psicoanalitica che cinematografica, ma senza il quale probabilmente la bella sorpresa rappresentata da Odio l’estate non ci sarebbe stata. Aldo Baglio, Giovanni Storti e Giacomo Poretti avevano infatti forse bisogno di uccidere le loro maschere per ripartire una volta per tutte, per tornare a rispolverare la propria comicità fisica e leggiadra facendola coesistere con quella vena allo stesso tempo buffa, virile e agrodolce che film come Tre uomini e una gamba e Chiedimi se sono felice raccontavano così bene.
In Odio l’estate hanno fatto i conti col trascorrere del tempo riempiendo le vite dei loro personaggi di mezza età di tic e imperfezioni drammaticamente attuali ma declinati con un sorriso bonario ed empatico: c’è Giacomo, il professionista medico eletto “dentist of the year” ma con una famiglia che in tanti definirebbero disfunzionale (moglie nevrotica e insopportabile, figlio non biologico dodicenne e già terribilmente ostile); Giovanni, il puntiglioso commerciante di un ammuffito negozio milanese di articoli per scarpe di nicchia che nessuno compra più e che s’incarta sempre con frasi in odor di retorica senile e pedanteria spinta; e infine Aldo, ipocondriaco spiantato e dal cuore d’oro, che in passato ha sfiorato Sanremo e continua a idolatrare alla follia Massimo Ranieri senza aver mai coltivato davvero le sue velleità.
Tre uomini, ma soprattutto tre classi sociali di appartenenza ben definite (il medio e l’alto borghese e il proletario) per fotografare col sorriso l’Italia di oggi ma anche le sfide di una genitorialità e di un’idea di famiglia non più granitiche come in passato, i cui pilastri appaiono sempre meno stabili, vessati sotto i colpi di egoismi e difetti coccolati con fin troppa compiacenza da tutte la parti in campo. Un salto non da poco per il trio, che si regala un’oasi di maturità espressiva, di equilibro non da poco tra i meccanismi della commedia pura e degli spunti di riflessione sul versante dell’osservazione di costume, alla luce della quale, ad esempio, i poveri sono rimasti gli ultimi a fare l’amore regolarmente e con passione.
Non stupisce, a tal proposito, che a completare la rimpatriata sia tornato a dirigerli Massimo Venier, il regista dei loro primi successi televisivi, teatrali e cinematografici e col quale non collaboravano da ben quindici anni, dall’ultimo Tu la conosci Claudia?. Un ricongiungimento che accresce la sensazione di trovarsi di fronte a una riunione di famiglia studiata con dolce schiettezza, in cui l’estate è il perfetto fondale per un corredo di nostalgie, rimpianti, barlumi di giovinezza ormai sfiorita, bagni nudi al mare di notte, prime e forse ultime volte. Tale affresco produce una commedia intergenerazionale che riconcilia con la possibilità di una condivisione degli affetti a tutto tondo, con tre eccellenti co-protagoniste (Lucia Mascino, moglie di Giacomo, Carlotta Natoli, moglie di Giovanni, e Maria Di Biase, moglie di Aldo) che si fanno portatrici di una sensibilità femminile complementare e sfaccettata, che non sta mai un passo indietro.
Come se non bastasse, in linea coi vecchi Aldo, Giovanni e Giacomo, oltre all’autocitazione della partita di calcio Italia – Marocco sulle note di Vinicio Capossela e all’epilogo on the road che fa fare al film il definitivo salto di qualità, ci sono anche i caratteristi azzeccati (a cominciare da Michele Placido, maresciallo dei Carabinieri pugliese e trafficone che sembra uscito direttamente da una commedia anni ’50) e le musiche del cantautore Brunori Sas, che raccoglie idealmente il testimone dei Samuele Bersani e dei Negrita che furono e accompagna le immagini in maniera discreta e mai invadente. Con un quantitativo minimo, ma quantomai calzante, di abbozzata ma non per questo impalpabile malinconia.
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