«I ruoli sono tutti difficili. Lo sfinimento fisico è sempre sopportabile, quel che mi tortura è lo stress mentale di non essere mai sicuro che la mia performance sia all’altezza. Un film è un lavoro collettivo ma davanti alla cinepresa sono solo, e questa responsabilità è origine anche di sofferenza».
Nonostante questo, nonostante una visione quasi sciamanica del mestiere dell’attore – l’idea è di farsi “possedere” dai personaggi, fino ad esaurimento delle energie psicologiche – Choi Min-Sik (si pronuncia “Cè Min Scich” – ce lo dice direttamente la sua press agent – e non “Ciòe Min Scich” come circolava voce nei giorni scorsi) sembra proprio un tipo allegro. Superati i 50 anni, è uno di quegli uomini di mezza età che non si fanno troppi problemi a vestirsi ancora con l’esagerata vitalità di un teenager: jeans strappati, una t-shirt bianca di Calvin Klein e una giacca leggera, grigia come il ghiaccio, che gli riflette i capelli folti e sottili, un po’ più che brizzolati. Si capisce che, in patria, la sua dimensione è non solo quella del divo, ma perfino del sex symbol, un De Niro coreano ancora nel fiore del suo talento, come lo presenta il Florence Korea Film Festival (scopri qui il programma completo del festival), che gli dedica quest’anno una bella restrospettiva (sarà in sala domani sera per presentare il suo film più celebre, Oldboy di Park Chan-Wook).
Quella che segue è la cronaca della conferenza stampa pubblica tenuta oggi dall’attore sulle rive dell’Arno, ospite di una terrazza in Borgo San Jacopo. Noi abbiamo anche avuto la fortuna di incontrarlo per una lunga intervista un’ora prima, intervista che troverete nel numero di maggio di Best Movie.
Il suo primo amore è stato il teatro.
«È vero. Ho iniziato col teatro, ho letto molti libri, per esempio Stanislawski, ma il miglior metodo è parlare con il regista, il film esprime sempre l’arte del regista. Parlare di tutto con lui, dalle semplici chiacchiere alla sua idea profonda di cinema, questo è quello che sono solito fare. Il personaggio è importante ma il colore e l’odore che il regista vuole dare al film sono più importanti».
Come vive il rapporto con il teatro rispetto a quello con il cinema?
«Il teatro è la terra natìa. L’attore è come un ballerino, con il linguaggio fisico esprime la sua forma mentis, emozione e sentimento. La comunicazione che avviene con il pubblico a teatro è “senza scampo”».
Parliamo del suo film più celebre, Oldboy, e della famosa scena in cui lei divora un polpo. La leggenda vuole che lei ne abbia mangiati quattro. Ci può raccontare come andarono le cose?
«In realtà avrei dovuto avvolgere solo una gamba del polpo a una bacchetta e poi mangiarlo, come si usa in Corea col polpo vivo. Ma dopo 15 anni di prigionia pensavo che il mio personaggio dovesse esprimere una certa brutalità, staccando la testa al polpo con i denti. L’ho proposto al regista e ha accettato. Il fatto è che l’assistente del regista aveva portato dei polpi vivi ma già moribondi sul set. Stavano morendo, non erano freschi e per nulla vitali. Quindi abbiamo mandato apposta qualcuno a prenderne tre vivi e belli vivaci…»
Poche settimane fa ha invece terminato le riprese del nuovo film di Luc Besson, Lucy, in cui recita con Scarlett Johansson e Morgan Freeman.
«Lo scorso agosto, finita la produzione di un film coreano di guerra (Battlefield, in cui si racconta di un generale coreano che difende il suo paese dall’invasione giapponese in una grande battaglia navale, NdR), stavo per tornare a casa e ho ricevuto una telefonata da Besson. Poi è venuto in Corea e abbiamo parlato quattro ore filate. Ho ascoltato tutto quel che aveva da dirmi, ma lo stimavo già, soprattutto per Le grand bleu. Lucy è un film sci-fi che parte dal presupposto che se un uomo usasse il 100% delle potenzialità del suo cervello potrebbe fare cose incredibili».
Come sceglie i suoi film?
«La critica dei media e l’opinione degli spettatori non è fondamentale. Devo essere attratto da un’opera. È come se avessi avuto una relazione con ognuno dei miei personaggi, e ciascuna è stata importante, mi ha segnato».
Può fare un esempio?
«Per fare un esempio, dopo Oldboy ero esausto psicofisicamente, vuoto, come se fosse finita una relazione passionale. Scelsi allora Springtime, e tutti mi dicevano di no, che il personaggio era piatto, il film poco interessante. Ma era quello di cui avevo bisogno. Era come arrivare in una casetta piccola e accogliente, con un letto comodo, dopo una grande fatica. Springtime ha avuto comunque una difficoltà da affrontare. Ero un trombettista in quel film. E non volevo suonare per finta, quindi ho studiato la tromba per sei mesi. E alla fine ho suonato davvero durante le riprese. Quindi mi sono liberato da Oldboy grazie a Springtime».
Che cosa distingue i grandi attori?
«La cosa che accomuna i grandi attori, giovani e non, con esperienza e non, è sempre l’onestà».
Quali sono i film italiani che ama di più?
«Fin dall’università vedevo molti film italiani, ma quello che amo di più in assoluto è la Strada di Federico Fellini, la cui colonna sonora suono anche con la tromba in Springtime. La scena finale con Zampanò mi è rimasta nel cuore. Tra gli attori mi viene in mente Lino Ventura, che ha lavorò però molto in Francia. Purtroppo oggi come oggi, in Corea, a parte all’università, vedere il cinema italiano è quasi impossibile».
Molti film coreani di successo in Europa sono piuttosto violenti per gli standard occidentali.
«È vero che molti film coreani famosi nel mondo sono davvero violenti, ma la violenza non deve ridimensionare l’idea dell’autore, non va contrapposta ad essa. Penso anche a un film come Antichrist di Von Trier. Certo, se lo si fa solo per scioccare la gente, non va bene. Se invece la violenza ha un senso, è ok».
Il tema della vendetta è molto frequente, specie nei suoi film.
«Questa idea di vendetta… In Corea c’è un detto: “per ogni azione o parola c’è un prezzo da pagare”. Penso alla scena della lingua mozzata in Oldboy. La vendetta non è solo verso gli altri, ma più in generale riguarda le conseguenze per le proprie azioni».
Va mai a vedere i suoi film al cinema?
«Certo! Appena un film esce in sala vado a vederlo. Entro quando tutti sono già seduti, mi metto in ultima fila, e guardo le reazioni del pubblico per capire se l’idea di regista e attori è arrivata al pubblico. Poi esco tre minuti prima, mi chiudo in bagno, mi turo il naso e ascolto i commenti a caldo, i più onesti».
Ha visto il remake americano di Oldboy?
«Volevo vederlo, ma dopo aver finito di girare con Besson, una volta tornato in patria, non ce l’ho fatta, era finita la programmazione».
Quando ha girato Oldboy sapeva già che avrebbe girato anche Lady Vendetta con Park Chan-Wook, in quel ruolo così duro (nel film interpreta un pedofilo, NdR)?
«Quando ho girato Oldboy la sinossi e l’idea di Lady Vengeance c’erano già, ma era stato così faticoso lavorare in Oldboy che non pensavo di lavorare in quell’altra produzione. Il mio personaggio non esisteva nemmeno. In quel periodo Park era consumato dall’idea della vendetta e di questa trilogia, sembrava posseduto».
È felice di ricevere un premio e un tributo speciale, qui a Firenze?
«Anche se questo Festival è del cinema coreano in generale, sento che il premio viene dal pubblico italiano. Mi fa molto piacere ricevere un riconoscimento qui dove la cultura è molto diversa, c’è una comunicazione tra me e voi che ha funzionato evidentemente, e questo mi responsabilizza ancora di più per il futuro. Io amo in generale i premi che vengono dal pubblico. Una volta ho ricevuto un premio dagli studenti universitari e questo mi ha gratificato molto. Questa idea di cinema che non è glamour ma riesce a far pensare e dialogare le persone, che entra nelle università, mi piace molto. Quand’ero studente io non era così».
Era mai stato in Italia?
«È la prima volta che vengo in Italia e a Firenze, a parte una breve giornata a Milano di passaggio dopo essere stato al Festival di Cannes. Sono arrivato solo ieri, non ho visto molto. Ma amo molto il cibo, voglio provare tutto il cibo fiorentino e italiano. Voglio scoprire l’Italia pian piano. E mi viene da pensare che sarebbe bello un festival di cinema italiano in Corea, per far venire talenti italiani da noi e far conoscere alla gente la cultura italiana».
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Qui sotto due scatti di Choi Min-Sik durante la nostra intervista:
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