Gli Oscar 2019 hanno incoronato Green Book, il film di Peter Farrelly dedicato all’amicizia tra Tony Villalonga, detto Toni Lip (Viggo Mortensen), un uomo dai modi rozzi che lavora come buttafuori, e l’autista Don Shirley (Mahershala Ali), un pianista afroamericano dalle straordinarie doti musicali. Una vittoria che alla vigilia era data come meno probabile rispetto a quella di Roma di Alfonso Cuarón, anche se non pochi osservatori, a cominciare dall’autorevole rivista americana Variety, avevano indicato Green Book come potenziale outsider di lusso. È anche il trionfo di una commedia (per quanto non pura, dati i non pochi momenti riflessivi e drammatici), circostanza che agli Oscar è un dato sorprendente perché rarissimo, quasi epocale.
I votanti dell’Academy, come spesso accaduto negli ultimi anni, hanno delineato un verdetto equilibrato che ha spartito la posta in blocchi pressoché uguali, senza scontentare troppo nessuno e valorizzando al meglio tutte le parti in causa con precisione chirurgica. Da Netflix, che con il dramma biografico e in bianco e nero del regista messicano ha messo le mani sulla sua prima affermazione importante portandosi a casa gli Oscar come miglior regia, fotografia (Cuarón è il primo regista a vincerlo) e film straniero, alla Marvel, che col cinecomic Black Panther, di enorme impatto politico e commerciale negli Stati Uniti, ha vinto per costumi, colonna sonora e scenografia. Un gran risultato per un cinecomic, nonché una notevole legittimazione professionale per il lavoro di questi anni di Kevin Feige e soci, che stavolta avevano a disposizione il cavallo giusto per una simile affermazione (aspettando Avengers: Endgame…).
Senza dimenticare l’altro grande fenomeno culturale di quest’anno, Bohemian Rhapsody, film più premiato con quattro statuette (montaggio sonoro, sonoro, montaggio e l’attore protagonista Rami Malek) e passando ovviamente proprio per Green Book, che al premio più ambito come miglior film ha aggiunto la miglior sceneggiatura originale e l’attore non protagonista (Mahershala Ali). La strada, evidente, è quella del compromesso nel porre l’accento sui film di maggior richiamo, in bilico tra valorizzazione delle minoranze e un’immancabile impronta politicamente corretta.
L’intimismo umanista di Roma, valorizzato da una tecnica cinematografica sopraffina e da un tocco d’autore raffinato e radicale, era probabilmente una scelta troppo ardita e di rottura per gli Oscar, che di solito prediligono prodotti più ecumenici e rassicuranti, tanto nello stile quanto nella forma. Green Book, in tal senso, era il contendente perfetto: un racconto d’amicizia con un protagonista bifolco che si ingentilisce attraverso la frequentazione con un uomo più raffinato e sfiora da vicino un’anima progressista. Perfetto per il sentimento pacificatore degli Oscar e il bisogno di appianare i contrasti razziali mandando un messaggio edificante che guardi, come di consueto, al presente degli Stati Uniti e alle fratture del nostro tempo (e naturalmente anche a Donald Trump).
La “rivoluzione” che una vittoria di Netflix avrebbe portato con sé, in termini industriali ma anche d’impatto sulla contemporaneità, per il momento è dunque rimandata. Magari all’anno prossimo, visto che in gara nel 2020 con ogni probabilità ci sarà The Irishman di Martin Scorsese, del quale con un certo, sintomatico tempismo è stato appena rilasciato il primissimo teaser trailer, proprio durante la notte delle stelle hollywoodiane (saranno maturi i tempi per l’appuntamento con la Storia del colosso di streaming, attraverso l’intercessione provvidenziale di un grande e venerato maestro?).
Lady Gaga, dal suo canto suo, si è accontentata dell’Oscar alla miglior canzone per Shallow, al culmine di un’esibizione da brividi con Bradley Cooper, mentre non ha sfondato La favorita, che su dieci nomination si porta a casa solo l’Oscar alla miglior attrice protagonista per Olivia Colman. Un riconoscimento sicuramente meritato per l’interpretazione di una regina tanto bambina quanto viscida e prevaricatrice – una sublime maschera del potere e della debolezza dei suoi istinti bassi – anche se in tanti avrebbero preferito una statuetta per la veterana Glenn Close, rimasta ancora una volta a bocca asciutta (settimana nomination a vuoto). Davvero poco, nonostante il peso del premio, per il film di Yorgos Lanthimos, che pure insieme a Roma era il più nominato. A riprova che gli Oscar non sono certo il territorio dell’irriverenza, del paradosso e del gioco formale ardito, tutti elementi cardine nel film del cineasta greco.
A contare, come di consueto, è la valorizzazione del lato migliore dell’industria e l’unico spunto eversivo, quest’anno, l’ha fornito Spike Lee, che dopo aver vinto il suo primo Oscar per la miglior sceneggiatura non originale di BlacKkKlansman si è adirato contro la vittoria di Green Book (qui trovate il racconto dell’accaduto), ironizzando oltretutto sull’edizione di quasi trent’anni trent’anni fa, quando nel 1989 a trionfare come miglior fu A spasso con Daisy (Spike era nominato per la sceneggiatura di Fa’ la cosa giusta, per poi di fatto rimanere escluso dagli Oscar fino a oggi).
«Ogni volta che qualcuno guida qualcosa, io perdo», ha dichiarato il regista afroamericano nel backstage della sua conferenza stampa, riferendosi ironicamente proprio al film con Jessica Tandy e Morgan Freeman e avallando di fatto quanti hanno voluto vedere in Green Book solo e soltanto un A spasso con Daisy a parti invertite (in realtà è molto di più, a cominciare da una scrittura comica pirotecnica e a orologeria, che smussa i personaggi con dolcezza). Qualcosa del film di Farrelly non dev’essergli evidente andato giù e si può ipotizzare che il suo fastidio derivi proprio dalla maniera di affrontare il conflitto razziale in chiave di favola buonista, destinata a mettere d’accordo tutti (così è stato, anche agli Oscar).
Nel suo acceptance speech, dal taglio fortemente impegnato, non le ha infatti mandate a dire, guardando al futuro dell’America e alle prossime elezioni presidenziali: «Davanti al mondo stasera voglio ringraziare i nostri antenati che ci hanno aiutato a costruire questo paese rendendolo quello che è oggi, insieme al genocidio del suo popolo nativo. Se ci riconnetteremo tutti con i nostri antenati avremo amore e saggezza, riavremo la nostra umanità. Sarà un momento potente. Le elezioni presidenziali 2020 sono dietro l’angolo. Mobilitiamoci tutti. Siamo tutti dalla parte giusta della storia. Facciamo la scelta morale tra l’amore e l’odio. Facciamo la cosa giusta! Sapevate che avrei detto questa cosa…».
Parole dalla forte componente politica, con tanto di ovvia autocitazione, che cade oltretutto in un anno particolarmente significativo per il black power agli Oscar: la costumista e la scenografa di Black Panther, Ruth Carter e Hannah Beachler, sono le prime donne afroamericane a vincere nelle rispettive categorie, senza contare l’Oscar alla miglior attrice non protagonista a Regina King per Se la strada potesse parlare e la statuetta al già citato Ali (la polemica #OscarSoWhite sembra ormai lontana anni luce). Un’eco che è stata evidente fin dalle battute della cerimonia, come di consueto prolissa e paludata nonostante i tagli annunciati nel tentativo di snellirla e la polemica, poi rientrata con pronto dietrofront dell’Academy, per alcuni Oscar tecnici da assegnare durante le pubblicità (l’assenza di conduttore, in termini di ritmo, ha reso però tutto paradossalmente più uniforme evitando tanti intermezzi forzati e telefonati).
Il copione degli Oscar, al netto di tutto, si conferma sempre uguale a se stesso: il loro impatto culturale è indubbio tanto quanto le abitudini dell’industria hollywoodiana nel guardarsi allo specchio con auto-indulgenza, edizione dopo edizione. Proiettare sul premio delle ansie di novità e le mutazioni in atto, soprattutto dopo i premi di quest’anno, somiglia a un esercizio quantomai sterile e improduttivo. Magari esaltante e stimolante alla vigilia, ma costretto puntualmente a scontrarsi con l’evidenza dei verdetti, quasi sempre dichiaratamente e spassionatamente popolari. Non che sia un male, in fondo è la loro ragione d’esistere. Un motivo per per cui il paventato e poi cancellato premio al miglior film “popolare” sarebbe stata una mossa a dir poco ridondante.
Meglio prenderli per quello che sono, pacatamente e serenamente: un grande gioco in grado di catalizzare l’attenzione del mondo, in cui il riconoscimento della qualità artistica è solo una parte, spesso marginale, del discorso complessivo. Una narrazione molto più interessata allo spirito del tempo, allo stato delle cose, alla celebrazione dello storytelling hollywoodiano, incapace, per il momento, di lasciarsi spezzare o anche solo incrinare. Per la messa in crisi e per la presa di coscienza del futuro, dopotutto, ci sarà – forse – tempo.
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