Perché il Maestro David Lynch è stato uno dei più grandi autori di tutti i tempi (per alcuni il più grande)
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Perché il Maestro David Lynch è stato uno dei più grandi autori di tutti i tempi (per alcuni il più grande)

Il 16 gennaio 2025 il mondo ha perso l'artista nato nel 1946 a Missoula, nel Montana. Il 20 gennaio avrebbe compiuto 79 anni. Condivideva il giorno del compleanno con il suo amato Fellini. E come uno dei suoi Maestri non può essere ridotto a nessun aggettivo che non sia il suo specchio: Lynchiano

Perché il Maestro David Lynch è stato uno dei più grandi autori di tutti i tempi (per alcuni il più grande)

Il 16 gennaio 2025 il mondo ha perso l'artista nato nel 1946 a Missoula, nel Montana. Il 20 gennaio avrebbe compiuto 79 anni. Condivideva il giorno del compleanno con il suo amato Fellini. E come uno dei suoi Maestri non può essere ridotto a nessun aggettivo che non sia il suo specchio: Lynchiano

omaggio a david lynch

Il 4 novembre 2017 la dodicesima edizione della Festa del Cinema di Roma, all’apice degli anni d’oro della Direzione artistica di Antonio Monda, si animava di una folla composta da genti di ogni genere, tutti coll’abito della domenica, accorsi in massa all’Auditorium Parco della Musica per salutare, guardare da vicino e possibilmente alzare il braccio e rivolgere anche solo una domanda a lui: David Keith Lynch, noto semplicemente come David Lynch, artista americano nato in Montana il 20 gennaio 1946, poco dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, e deceduto oggi, 16 gennaio 2025 nella sua amata Los Angeles, mentre Hollywood e la Città degli Angeli restano sconvolte dalla più indomabile serie di incendi mai registrata nei suoi annali, che si parli del ‘900 o meno che mai del nuovo Millennio. Scegliere quel giorno a Roma per cominciare potrebbe suonare più o meno arbitrario. Ma già che descrivere l’estro e il genio, vita morte e miracoli audiovisivi di uno dei più rivoluzionari artisti mai vissuti in una sola pagina non è che un atto sentimentale, carico di gratitudine e cordoglio, possiamo anche supporre che quelle immagini e quelle parole della masterclass romana non rappresentino un punto a caso, bensì un momento profondamente meditato, soppesato e regalato agli estimatori, gli studiosi e i fan con l’attenzione, l’amore e la cura di un uomo che aveva scelto ogni singolo vocabolo, e perfino ogni silenzio, perché restassero oltre lo spazio e il tempo, l’emozione e il presente.

Sembrano solo pochi giorni fa ma era l’estate scorsa, per la precisione agosto del 2024 quando tra le news d’Italia e d’oltreoceano iniziava a circolare un comunicato redatto dallo stesso David Lynch: raccontava di essere affetto da un enfisema polmonare e per questo non potere più lasciare la sua casa e il suo Studio per essere materialmente presente su di un set propriamente detto, eppure di non avere alcuna intenzione di «andare in pensione». Al tempo stesso rivelava di avere iniziato a fumare sigarette dall’età di otto anni e di non aver mai smesso se non da poco, oborto collo. E se solo intransigenti e benpensanti potevano aspettarsi una pubblica condanna di questa forma di dipendenza oggettivamente malsana, anche nel tempo della massima caccia alla streghe David Lynch ha ribadito invece, per l’ennesima volta di non provare rimpianti né rimorsi ma trovare perfettamente naturale che quel vizio che ha sempre tanto amato, dovesse ora comportare un prezzo. L’ironia ineffabile e la proverbiale grazia della sua comunicazione ci aveva fatto credere, sperare o forse illudere che le sue condizioni non fossero poi di una gravità estrema, e avremmo continuato ancora a lungo a sorprenderci di fronte alla sua ultima, imprevedibile iniziativa (per citare una tra tante, la sua attività come meteorologo, dedito a video previsioni del tempo fino alle fine del 2022, intese naturalmente sia in chiave surrealista, o di Teatro dell’Assurdo, che in senso hegeliano e in fondo, perfino in senso stretto).

Perché non sarà superfluo ricordare che Lynch nasce come pittore e occasionalmente scultore, dedito all’astrattismo e la sperimentazione radicale – ispirato tanto dalle Avanguardie storiche, dal Dadaismo di Tristan Tzara quanto dal Surrealismo di André Breton, cresciuto nell’America rurale con l’indole del ribelle e giunto in una Philadelphia povera, decadente e lurida come studente proprio nella seconda metà anni ’60, quelli dei movimenti New Dada e dell’invenzione degli Happening e le Performance, nonché dei primi esperimenti di Video Arte – e quindi solo in seguito prestato al Cinema e l’Audiovisivo. Mai cresciuto come cinefilo, al crocevia tra la nascita della sua prima figlia, il fallimento del suo primo matrimonio e le difficoltà economiche dell’età adulta, si sentirà salvato da una borsa di studio dell’American Film Institute – come lui stesso ha scelto di raccontare nel suo documentario autobiografico del 2016 The Art of Life, presentato alla Mostra del Cinema di Venezia, dove ha ricevuto il Leone d’Oro alla Carriera. E per questo solo chi non conosce davvero né il corpus eterogeneo delle sue opere né quella complessa, irriducibile poetica da lui stesso descritta così generosamente tante, tante volte, può oggi avere la superficialità o l’arroganza di scrivere il dato grezzo, ovvero che il suo ultimo film è stato Inland Empire, e quindi che il Maestro manca dalla sala cinematografica dal lontano 2006. Perché David Lynch non può essere riassunto che nell’impossibilità di un nome solo, che sia nelle diverse sfumature e accezioni di regista, cineasta, autore o filmmaker; e più oltre nell’impossibilità di un aggettivo che non sia il suo specchio, il suo doppio, che non escluda luci né ombre: Lynchiano.

Termine per altro ammesso nel 2018 tra le pagine dell’Oxford English Dictionary. Indagato da una miriade di piccoli o grandi esegeti, su tutti David Foster Wallace già nel lontano 1996 nella sua celebre intervista quindi nella versione integrale del saggio contenuta oggi nella raccolta Una cosa divertente che non farò mai più, dove lo scrittore indaga ancora per individuare Il Male (e la sua disamina) come unico possibile fulcro dell’opera e dell’aggettivo stesso Lynchiano: «un tipo particolare di ironia dove il molto macabro e il molto banale si combinano in maniera da rivelare la corrispondenza continua dell’uno dentro l’altro». E così, dal canto nostro non può seguire nessun riassunto e nessun necrologio del Maestro che non sia scandito da pochi, grandi premi (tra i quali ovviamente nessun Oscar, se non quello alla Carriera) e una serie inenarrabile di intuizioni rivoluzionarie. Su tutte, combinare il proprio estro creativo con quello di Mark Frost e produrre per il network ABC nel 1990 quello che nessun regista sperimentale, nessun filmmaker d’avanguardia avrebbe mai neanche iniziato a pensare, non senza il più sommo sdegno: passare al piccolo schermo con il telefilm che già dall’episodio pilota seduce e conquista l’audience, prima negli Stati Uniti e poi del Pianeta intero, e così riscrive per sempre la Storia del Cinema, della Serialità contemporanea e della Tv insieme, Twin Peaks (trasmesso per la prima volta in prima serata da Italia 1 nel 1991 con il titolo I Segreti di Twin Peaks).

A questo punto potremmo procedere magari con una vasta e variegata serie di nomenclature e nomi: regista, sceneggiatore, produttore, montatore, attore, musicista e compositore, influencer ante litteram, esperto e divulgatore di meditazione trascendentale, pittore e designer, produttore di caffé (nero, anzi «black as a monless night»), talent scout, personaggio pubblico, che per sé stesso non ha mai preteso altro che l’indipendenza, la libertà e l’affermazione individuale che comunemente riassumiamo nel termine Artista. E che oggi con la notizia della sua dipartita ci costringe a ripensare ancora tutto: dalla sua inaspettata popolarità internazionale alla sua capacità di imprimere il proprio volto nell’immaginario collettivo ai più vari e diversi livelli, per concludere forse con altri interrogativi, altre domande e altri misteri insiti alla radice stessa della condizione umana. Chi siamo? Da dove veniamo? Chi ha ucciso Laura Palmer?

E così, ripensare ancora e ancora a come David Lynch ci abbia sempre invitato cordialmente a rivedere tutta la gamma delle convinzioni e i pregiudizi più pervasivi, vecchi, superati e immarcescibili, pronti  riemergere anche nelle più altolocate e colte delle disamine. Guardando al Cinema anzitutto come estensione della facoltà del Sogno, e per questo patrimonio di ogni Essere Umano mai nato e vissuto in ogni angolo e parte del globo – che si parli di sperimentazioni anti-narrative come Strade Perdute o Mulholland Drive o dei capolavori figurativi The Elephant Man e Una Storia Vera. Quindi, non cercare una unica e sola Verità sul Cinema, ineluttabilmente fondato sulla dicotomia, il dualismo e l’ossimoro composto da Industria e Arte. E poi ripensare la Storia dell’Arte che ancora ostinatamente si separa nella Teoria come nella Pratica da quella del Cinema (e viceversa). Le Serie Tv che ancora oggi agli occhi di qualcuno faticano ad essere assimilate definitivamente, naturalmente a qualunque altra forma d’Arte e di Cinema. Rammentare l’intuizione che la Stranezza della Vita non ha spiegazione Logica e così può essere anche la Stranezza a dominare l’Arte e il Cinema. L’intuizione che già negli anni ’80 e ’90 fosse giunto ampiamente il momento di rompere il soffitto di cristallo e porre al centro Protagoniste Femminili scritte, filmate e interpretate in chiave totalmente inedita, per una delle tante silenziose rivoluzioni operate da Lynch, perché davvero potessero disturbare, provocare, turbare le coscienze e così scardinare il passato con le sue norme. E su tutto, celebrare un uomo che scelto di sperimentare l’Esistenza strenuamente, giorno dopo giorno, fino all’ultimo come una Opera d’Arte Vivente, se pure in un Tempo regressivo che non supera e non ammette, anzi annichilisce le stesse, solite categorie tradizionali: outcast, loser, emarginati, diversi, minoranze di ogni ordine e grado.

In una carriera tanto lunga da negarsi e sfuggire sistematicamente a ogni etichetta e definizione di genere, il 2017 può essere considerato per molti versi un momento fatidico. Perché David Lynch presenta dopo 25 anni la terza stagione di Twin Peaks e lo fa al Festival di Cannes. Perché i Cahiers du Cinéma a fine anno segnano il loro definitivo e indiscutibile punto di rottura scegliendo per la loro attesissima Classifica annuale un Miglior Film, che è proprio la nuova stagione di Twin Peaks, e tecnicamente non solo è una serie ma ha ben diciotto episodi, ciascuno scritto e prodotto secondo il più autentico processo di Rifondazione del Mito, per rivelarsi tanto delirante, distorto surreale e complesso da non chiedere minimamente di essere compreso, meno che mai analizzato, se non in termini diversi da quelli della razionalità e della consequenzialità lineare. Ma in fondo, stanotte volevamo solo rievocare la conferenza stampa e l’Incontro Ravvicinato del 2017 alla Festa del Cinema di Roma, dove David Lynch ha ricevuto il Premio alla Carriera da Paolo Sorrentino. Qui ha scelto di parlare a lungo non di sé ma di uno dei suoi Maestri, uno dei suoi Autori di Cinema preferiti: Federico Fellini. Ha ricordato come grazie a Marcello Mastroianni e a una cena a base di soli funghi avesse già avuto occasione non solo di incontrarlo ma trascorrere una intera giornata con lui tra lo Studio 5 e la sua Cinecittà.

Eppure, non ha voluto condividere gli aneddoti legati a quel momento che ha evidentemente cambiato la sua percezione e la sua vita di giovane filmmaker americano, ancora promettente ma forse sconosciuto ai più. Ha voluto parlare di un giorno del 1993, quando si trovava a Roma per stupire ancor di più i detrattori italici dirigendo uno spot pubblicitario per la Barilla. E soprattutto raccontare come grazie al Direttore della Fotografia Tonino Delli Colli e al giornalista Vincenzo Mollica abbia avuto l’opportunità di incontrare Federico Fellini ricoverato in ospedale: «Mi sono seduto di fronte a Fellini, gli ho preso la mano e abbiamo parlato per mezzora. Mi ha raccontato di quanto stesse cambiando il Cinema e il Mondo in generale, mi disse che quando era più giovane e andava al bar a fare colazione i giovani intorno a lui parlavano di cinema, mentre ora parlano solo di Tv e non mi riconoscono neanche più. La cosa lo intristiva molto. Prima di salutarlo gli dissi: “Il mondo intero aspetta il suo prossimo film, Mr. Fellini”. E quando uscii dalla stanza, Vincenzo mi ha raccontato questa storia anni dopo, il regista disse: “Questo è proprio un Bravo Ragazzo”. Era venerdì sera, due giorni dopo Fellini entrò in coma e due settimane dopo morì».

E per il momento il nostro ricordo del Maestro David Lynch si ferma.  Consapevoli che per comprendere davvero la portata e l’importanza del suo lavoro, della sua persona e della sua influenza sul mondo contemporaneo, così come l’entità della sua perdita, serviranno ben altre righe, più distacco e più tempo.

Foto: Chris Weeks/WireImage (David Lynch at his Studio in Hollywood, March 15 2002)

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