Con la recente uscita di Longlegs e The Monkey, gli spettatori stanno riscoprendo la filmografia di Oz Perkins. Nello stesso anno del suo debutto come regista con February – L’innocenza del male, che oggi ha raggiunto lo status di cult del cinema horror, egli è stato sceneggiatore di un film spesso dimenticato, The Girl in the Photographs, diretto da Nick Simon e prodotto da Wes Craven.
Il fatto che non venga ricordato, purtroppo, non è casuale: nonostante i nomi associati, la pellicola è stata accolta negativamente dalla critica, che l’ha definita più adatta alla distribuzione home video che al grande schermo. In effetti, la sua release nel 2015 è stata estremamente limitata ed è avvenuta principalmente tramite il video-on-demand. Tuttavia, dietro la trama non particolarmente originale e i personaggi un po’ piatti, si nascondono tematiche legate allo showbusiness e alle arti visive, che lo rendono una sorta di “fratello minore” di titoli più recenti come la trilogia di Ti West con Mia Goth e il candidato all’Oscar The Substance.
The Girl in the Photographs racconta la storia di Colleen (Claudia Lee), una donna che lavora in un supermercato e che una mattina trova una fotografia che ritrae una certa Janet, distesa su un letto in un bagno di sangue. Quando cerca di denunciare l’omicidio, però, la polizia non le crede, ritenendo che si tratti di una fotografia artistica. La donna scopre che l’immagine da lei trovata è solo l’ultima testimonianza di una serie di omicidi, ai quali sembra connessa anche la figura del fotografo Peter Hemmings (Kal Penn), che, affascinato da questi casi, arriva in città con l’intenzione di realizzare un photoshoot con una “modella morta”.
Questo horror costruisce dunque una storia attorno al tema dello sfruttamento all’interno del mondo dello spettacolo, dell’ossessione per i corpi delle donne e della loro oggettificazione. Non a caso, si apre con una citazione di William S. Burroughs che condanna il mezzo della fotografia come qualcosa di osceno, a cui segue la sequenza dell’assassinio di Janet (Katharine Isabelle), rappresentata come un macabro servizio fotografico, in cui un flash acceca ripetutamente la donna mentre viene colpita e urla di dolore. La fotografia, quindi, viene equiparata dagli autori a uno strumento di violenza e morte. E quando si arriva al finale, la chiave di lettura di questo film horror è del tutto priva di speranza: proprio come accade nello spietato business dello spettacolo, quando una giovane attrice ormai è stata usata troppo e “non serve più”, si passa direttamente alla successiva.
Fonte: Collider
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