Quando il cinema diventa una cattedrale: la recensione di The Hateful Eight, l'ottavo film di Tarantino
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Quando il cinema diventa una cattedrale: la recensione di The Hateful Eight, l’ottavo film di Tarantino

Quentin stringe un patto con i suoi spettatori. E non tradisce mai

Quando il cinema diventa una cattedrale: la recensione di The Hateful Eight, l’ottavo film di Tarantino

Quentin stringe un patto con i suoi spettatori. E non tradisce mai

C’è una forma particolare di talento, che ha molto a che fare con l’amore per ciò che si fa. È il talento che si esprime attraverso la cura, la devozione, l’ossessione creativa. Tarantino è un genio devoto, e i suoi film sono ormai quasi cerimoniali, la sala è una cattedrale: chiunque conosca un po’ la sua storia e le sue idee, ad esempio, difficilmente penserà che le proiezioni in 70mm di The Hateful Eight siano una mera trovata pubblicitaria.

A chi avrà la fortuna di assistervi – in Italia è possibile a Milano, Bologna e Roma – verrà consegnato un programma di sala, come se si fosse a teatro; nella versione in pellicola c’è inoltre una strepitosa ouverture musicale di Morricone che precede il film vero e proprio, e un intervallo di 12 minuti esatti, che termina con un altro interludio musicale, per dare il tempo agli spettatori di riprendere posto. E la cosa buffa è che i 12 minuti di intervallo sono conteggiati nella durata ufficiale del film, come parte dell’opera. Tarantino pretende quindi che il cinema sia un luogo e un’esperienza condivisa, ha questa foga anti-storica ormai nota, e vuole da noi la stessa dedizione.

Sarà allora un caso, o forse no, che il suo ottavo film si apra su un lentissimo dolly all’indietro, che parte dal volto di un Cristo di legno coperto di neve e ghiaccio, forse la singola sequenza più bella degli ultimi anni, su una musica drammatica che sembra presagire una qualche Apocalisse. Nelle tre ore che seguono il cinema di Tarantino – che è sempre la scena di un delitto, compiuto o da compiere, una sospensione e poi un epilogo – accade nella sua forma più riconoscibile e al contempo diventa altro: un ibrido tra un romanzo di Agatha Christie e un horror di John Carpenter, dove uno dei personaggi è – metaforicamente – il virus, l’origine dell’epidemia, e il contagio si abbatte poi sul resto della comitiva, ovvero nove (non otto, la locandina non comprende l’uomo che guida la carrozza, non è uno spoiler) ceffi con qualcosa da mostrare e qualcosa da nascondere, bloccati in una baracca da una tempesta di neve, mentre la storia procede un disvelamento dopo l’altro.

E naturalmente quando il cinema è così scarnificato, unità di tempo e luogo, e un certo numero di personaggi costruiti fino all’ultimo pelo di barba e poi smontati, tutto quello che succede, o è detto, ha una risonanza politica cristallina. Ecco, non c’è probabilmente nessun autore al mondo oggi, nessuno, che parli di questioni razziali e di genere – bianchi e neri e messicani, uomini e donne -, di ciò che compete alla giustizia e invece al destino, come fa Quentin quando lancia i suoi burattini uno contro l’altro. Nessuno che riesca a conciliare lo slancio progressista alla perturbazione delle attese dello spettatore, alla ricollocazione cinefila degli immaginari, al divertimento puro.

Quindi andate in sala e armatevi di pazienza (e programma), il film dura tre ore ed è quasi ininterrottamente dialogato, poi ogni promessa viene mantenuta.
Vedere The Hateful Eight è come stringere un patto, e a nessuno piacciono i traditori: sapete che fine fanno nei western.

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