Volente o nolente, Zerocalcare ha finito per ritagliarsi uno spazio preciso nella vita dei suoi lettori. Probabilmente, come ripete spesso, non è un intellettuale, ma non ha nemmeno senso provare in tutti i modi a tenerlo lontano dalle questioni quotidiane, dal cosiddetto immaginario comune e dal sentire di una generazione intera. Facendo i suoi fumetti, Zerocalcare ha potuto sperimentare e cambiare. Ed è cresciuto. Come autore, certo, ma soprattutto come persona. Quando muori resta a me, il suo nuovo libro pubblicato da Bao Publishing, non è né un reportage di guerra né una lunga riflessione sulle ingiustizie contemporanee. È, al contrario, un ritratto intimo e delicato, che si concentra sul rapporto tra Zerocalcare e suo padre, sul futuro che non aspetta, sulla paura di diventare genitori e sulla morte che si fa improvvisamente vicina.
Dal punto di vista narrativo, s’intrecciano diverse trame: ce ne è una orizzontale, che tiene insieme la storia, e poi ce ne sono altre, verticali, che schizzano via come grilli impazziti. La coerenza del racconto resiste, non cede né alla divisione in capitoli né ai flashback, e in questo si riconosce l’esperienza di chi, per più di dieci anni, s’è impegnato a disegnare e a scrivere e ha imparato stratagemmi e meccanismi più o meno articolati. Zerocalcare, però, rimane Zerocalcare. E questo è senza ombra di dubbio il suo più grande pregio. Citazioni, riferimenti, rimandi. S’infila nella sua infanzia, e ne esce fuori con considerazioni e confessioni. E intanto scherza, perché sa che è importante farlo, e si mostra sempre di più, finché non si spoglia della maschera e si rivede nello specchio.
I grigi di Alberto Madrigal, che ha curato anche i colori della copertina, restituiscono una profondità precisa alle vignette. Che si alternano, si schiacciano, s’allungano, seguendo unicamente una cosa: la prospettiva dell’autore-narratore. Forse, tra i fumetti di Zerocalcare, Quando muori resta a me è uno dei più maturi. Se non, addirittura, il più maturo. Attenzione, però: in questo caso “maturo” non significa più o meno consapevole; significa, semmai, più vicino ai temi e ai pensieri di un uomo dell’età di Zerocalcare. Vedere i genitori non come dei nemici o dei guardiani invincibili è il primo passo nell’età adulta. Capire, poi, che un giorno non ci saranno più, appuntarsi questa cosa nel cuore e nella testa, vuol dire smettere di essere solamente figli. Vuol dire pensare al mondo esterno, chiedersi se è il caso di diventare a propria volta genitori di qualcuno. E non c’è mai nessuna sicurezza, mai. Ma dubbi e ansie.
Non sappiamo niente dell’altro, nemmeno di chi ci ha messo al mondo. Certe verità appartengono alla storia, alla cronaca, tra montagne che non dimenticano e paesini incastonati tra le Dolomiti che si fanno divorare dalla rabbia e dal rancore. A Zerocalcare non piace quando gli vengono attribuiti meriti e titoli. Eppure è innegabile che, nel corso del tempo, sia riuscito a dare voce a una generazione che oggi ha tra i 30 e i 40 anni, che ha visto le stesse cose che ha visto lui in tv, che ha letto i fumetti, che s’è ritrovata coinvolta nella rivoluzione di Internet e che, senza volerlo, è finita schiacciata tra il progresso e la tradizione. Anche in questo torna il rapporto con i genitori.
Appartengono a un’altra dimensione, una dimensione che non capiamo; e facciamo fatica a riconoscerli per ciò che sono – non siamo gli unici a essere vittime di un grande, confusissimo fraintendimento. Con Quando muori resta a me, Zerocalcare ci vuole ricordare che il mondo non gira intorno a nessuno, men che meno a noi. Siamo come pupazzi da collezione, non come giocattoli. Dobbiamo essere noi, non gli altri, a darci uno scopo. E quello scopo può essere fare figli o non farli; può essere provare ad ascoltare il prossimo o trincerarsi saldamente nelle proprie convinzioni.
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