Stephen Hawking, come protagonista di un biopic, ha un vantaggio notevole su Alan Turing: non è un genio misantropo, omosessuale e semi-autistico, ma uno scienziato brillante, con un senso dell’umorismo confortante e progressista, e una bella famiglia. Per questo La teoria del tutto è un film molto più facile da amare rispetto a The Imitation Game, dal quale lo separano appena due settimane di programmazione nelle sale: il suo protagonista ha tutto per risultare simpatico, rappresenta anzi lo stereotipo dello scienziato, cervello sopraffino in un corpo inessenziale, a suo agio in questa condizione.
Astrofisico inglese noto soprattutto per i suoi studi sui buchi neri e l’origine dell’universo, Hawking – che proprio oggi (8 gennaio) compie 73 anni – convive con una forma di atrofia muscolare progressiva dalla tarda adolescenza, quando ancora deve conseguire la laurea e iniziare il successivo periodo di dottorato a Cambridge. Cosa che non gli impedisce di diventare uno degli scienziati più importanti del ventesimo secolo, di mettere su famiglia (ha tre figli) e di diventare un paladino della divulgazione, strepitoso nella traduzione di teorie matematiche complesse in concetti evocativi e di facile acquisizione (a partire dal celebre Dal Big Bang ai buchi neri. Una breve storia del tempo, quasi 10 milioni di copie vendute nel mondo).
Oggi Hawking – con il suo corpo sghembo, i polsi stretti, il prognatismo e quella sedia a rotelle dotata di un sistema di sintetizzazione vocale che gli consente di continuare a comunicare, scrivere e tenere conferenze – è diventato il simbolo della “fisica amichevole”, origine di un’iconografia alla Albert Einstein, in cui però l’espressione di un buon umore, di uno spirito alto e solenne, di una curiosità fanciullesca e pervicace, non sono soltanto strumento di conoscenza ma arma esistenziale, antidoto alla depressione, moto di rivalsa.
La teoria del tutto racconta questa esperienza di vita con toni agiografici e romantici, partendo dall’autobiografia dell’ex moglie di Hawking e madre dei suoi bambini, Jane. I due si conobbero durante il periodo di dottorato, e decisero di sposarsi quando i medici promettevano a Stephen non più di due anni di vita e una fine tremenda, sulla base di una diagnosi parzialmente errata. Partendo da lì, ogni loro scelta è stata un atto di fede, una vittoria nei confronti di quella stessa scienza che per primi usavano come un grimaldello nei confronti del bigottismo (se l’universo/tempo non ha mai avuto origine – che è la seconda grande intuizione di Hawking, quella che confuta la prima – non c’è creazione, non c’è Dio), ovvero della fede stessa.
È questa la grande bellezza della loro storia, il trionfo della vita attraverso la messa in discussione di sé, la composizione dell’incompatibile: un ateo e una credente che tirano fuori una famiglia da una malattia degenerativa, che discutono l’esistenza di Dio attraverso la matematica e il canto gregoriano, che si amano, sostengono e soprattutto separano con naturalezza, secondo una logica che non è binaria né cattolica, e forse sta a metà strada. Il film la racconta con furbizia e talento, limitando antiestetismi e scene madri, con qualche parentesi divulgativa ovviamente superficiale, ma anche rifiutando la standing ovation continua (ce ne sono un paio, veloci). Si piange tanto, per tutti i motivi più ovvi, e sotto stretto controllo della regia (di James Marsh, quello dei bellissimi documentari Man on Wire e Project Nim). E d’altra parte poco commuove più di questo: l’uomo che si aggrappa alla matematica per dare una forma alle sue paure e un senso ai suoi desideri. L’uomo che nonostante tutto sopravvive.
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