Milano, aprile 1945. Siamo agli sgoccioli della Seconda Guerra Mondiale. La città è in macerie. Nel caos della guerra Isola (Pietro Castellitto) è diventato il re del mercato nero, guidato da un’unica legge morale: la sopravvivenza. Yvonne (Matilda De Angelis) è la sua fidanzata clandestina, cantante del Cabiria, l’unico locale notturno rimasto aperto in città. Ma anche Borsalino (Filippo Timi), gerarca fascista, torturatore spietato coi ferri roventi, è innamorato perdutamente di Yvonne e disposto a tutto pur di averla.
Isola e i suoi intercettano una comunicazione cifrata e scoprono che Mussolini ha nascosto il suo immenso tesoro proprio a Milano – nella “Zona Nera” – in attesa di fuggire per la Svizzera, scampando alla cattura e alla forca. Isola non può lasciarsi sfuggire l’occasione della vita – il colpo più ambizioso della Storia – e decide perciò di mettere in atto un’impresa folle: rapinare il Duce.
Rapiniamo il Duce, progetto tutto italiano targato Netflix, parte dalla Storia (il tesoro di Mussolini, meglio noto come l’“oro di Dongo”, è veramente esistito, anche se non si sa che fine abbia fatto) e vi costruisce intorno una storia quasi vera, come recita la dichiarazione d’intenti della didascalia iniziale, con un heist movie che s’ispira a personaggi reali contaminandoli con un eclettismo pop e pulp chiamato a incrociare fumetto e cinema.
Non basta però limitarsi a intersecare superficialmente i due linguaggi per dare vita a un film autenticamente fumettistico. Non basta il piano visivo e grafico, così come il vigore grottesco non è conseguenza diretta e automatica della bidimensionalità dei caratteri. Quentin Tarantino è sempre partito dalla scrittura per creare questi effetti e cambiare di segno la storia del cinema contemporaneo, mentre gli infiniti emuli ed epigoni hanno sempre avuto difetti accomunabili a quelli di Rapiniamo il duce.
Un’operazione al cospetto della quale dispiace davvero che la scrittura appaia così bozzettistica e lacunosa, visto che quello del regista di Paz! e Lo spietato Renato Di Maria si configura in teoria come un vero racconto character driven, nel quale ogni personaggio suona una nota precisa, anche i più marginali che spesso sono anche i più interessanti: da un’Isabella Ferreri finalmente divertita, oltre che suadente, nel rifare Gloria Swanson di Viale del tramonto (a lei un regista dall’eloquio raffinato vorrebbe affidare addirittura una Madame Bovary tra i pescatori di Pantelleria) a Maccio Capatonda, mattatore della linea comica più pirotecnica e demenziale del film. A lui è affidato il ruolo di un pilota d’auto, “eroe della patria” pluridecorato, che sembra incarnare fino in fondo lo spirito “bombarolo” e sabotatore che tutto il film avrebbe dovuto avere (tanto che lo stesso Maccio stesso, con una delle sue solite mosse irriverenti e punk, ha messo in rete un contro-trailer parodia del film in cui fa fuori tutti gli altri).
Le contaminazioni di Rapiniamo il Duce naturalmente non si contano (ci sono anche dei disegni animati, totalmente ridondanti, a fare da stampella), ma mancano soprattutto delle linee di dialogo a effetto, visto che gli scambi del copione si accontentano spesso di scantonare nel battutistico e la capacità delle singole macchiette di essere qualcosa di più, tutti insieme, della somma delle loro singole parti e dell’apporto di ciascun attore allo scalcagnato manipolo.
Pietro Castellitto, nei panni di un ladro di professione che ha il nome di battesimo del suo attore e considera i membri della sua banda non dei perdenti ma dei “virtuosi”, si ritrova in un contesto grossolanamente simile a quello di Freaks Out e compensa un carisma in questa prova a tratti intermittente con degli esilaranti e urlati scatti d’ira nevrotici che dimostrano quanto i tempi comici goffi, stonati e stralunati siano l’arma più luminosa del suo talento, mentre Matilda De Angelis si cala con generosità fragilissima nei panni di una donna maledetta che però è anche diva anni ’40 e cantante da night, concedendosi pure due notevoli esecuzioni personali di Tutto nero di Caterina Caselli, cover di Paint it, Black dei Rolling Stones, e Amandoti dei CCCP – Fedeli alla linea, rifatta da Gianna Nanni.
Eppure, come detto, non basta, e il senso di scollamento e occasione sprecata di questo Bastardi senza gloria italiano in miniatura si palesa a caratteri cubitali nell’approssimazione, guardinga e conservativa per quanto efficace sul piano tecnico e balistico, con cui è gestito quello che in teoria doveva essere il climax tensivo del terzo atto. Il momento “apicale” del colpo è infatti sacrificato all’ombra delle ragioni dei protagonisti, e s’inceppa in una scarsa considerazione e valorizzazione della coralità proprio in vista del traguardo, proprio sul più bello.
Foto: Netflix
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