Due fratellastri, uniti da un padre con cui avevano un rapporto quanto meno contrastato, si trovano al suo funerale cui devono partecipare entrambi: sono Raymond (Ewan McGregor) e Ray (Ethan Hawke), che in realtà, com’è facile immaginare, si chiama anche lui Raymond. Il padre si era rivelato un pessimo genitore, li aveva chiamati nello stesso modo e si divertiva perlopiù a confonderli, tanto che la madre aveva pensato bene di ribattezzare uno dei due.
Il regista-sceneggiatore colombiano Rodrigo García, figlio di Gabriel García Márquez, che ha esordito come regista nel 2000 con Le cose che so di lei (premio Un Certain Regard a Cannes), e ha spesso collaborato con Alfonso Cuarón (che di Raymond & Ray è uno dei produttori) e Guillermo del Toro, cuce intorno a due interpreti notevoli ed emblematici della loro generazione un family drama che agisce di sfumature e non detti, prendendo in controtempo la tragedia luttuosa tra consanguinei con un atteggiamento di distesa e cupa ironia.
C’è infatti tanto smozzicato black humour, in Raymond & Ray, ma è abilmente calato nelle pieghe di una messa in scena volutamente grigia e opaca, che procede con un andamento altrettanto spoglio e dimesso. Si tratta, allo stesso tempo, di uno di quei film in cui è una singola circostanza a mutare radicalmente equilibri e prospettive in campo, tanto che il mite e bonario Raymond e il più tormentato e scavato Ray, musicista con la passione viscerale per la musica jazz e passato da eroinomane, finiranno forse con lo sfibrare vicendevolmente e dolcemente i contorni delle proprie personalità sulla carta e in partenza granitiche, aderendo in un impeto di paradossale affetto filiale e profetico alla maniera singolare e alienata con la quale il padre era solito maneggiarli finché era stato in vita.
È naturalmente anche un film di prospettive sovvertite, Raymond & Ray, perché questo suo meccanismo ben oliato lo estende anche a tutti gli incontri – collaterali, ma tutt’altro che trascurabili – che la coppia di fratelli fa nei due giorni in cui si ritrova al capezzale del padre, figli, amanti e nuova donna dell’uomo compresi: tutti personaggi scanditi da una sceneggiatura schematica ma non avara di spunti filosofici e oblique posizioni esistenziali, snocciolate con apparente e trasandata noncuranza. Impareranno entrambi, ma soprattutto Raymond, a vedere quel padre tanto fallimentare quanto ingombrante sotto una luce diversa e più umana, sospinti verso un fisiologico relativismo nella gestione del mondo e degli affetti, in base al quale nulla impedisce che un pessimo padre e marito possa rivelarsi, in delle mutate contingenze e fasi della vita, se non buon papà quantomeno un buon compagno, e addirittura un uomo generoso e piacevole.
Raymond & Ray, senza strepitare e senza picchi di scrittura, recitazione e regia di nessun tipo, si configura così innanzitutto come un film sulla nostra soglia dell’empatia e del perdono, sulla dose di meschinità che siamo disposti ad assorbire come un veleno e poi eventualmente a metabolizzare; ma anche sull’elaborazione di una fraternità che coincide, molto spesso, col guardarsi allo specchio, vedendo la propria stessa immagine riflessa ma mettendo a fuoco innanzitutto i nodi irrisolti più faticosi e le mancanze e i vuoti più intollerabili di chi (non) ci è stato accanto.
Foto: Apple Studios; Mockingbird Pictures, Esperanto Filmoj
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