Era il 1988 quando uscì Die Hard, pellicola diretta da John McTiernan, che lanciò la carriera cinematografica di Bruce Willis come eroe d’azione. Die Hard era una pellicola che faceva propria la tradizione dei disaster movie degli anni ’70 (L’inferno di cristallo su tutti) e la ibridava con le dinamiche violente del genere action in voga in quegli anni. Alla ricetta aggiungeva parecchia ironia e un protagonista più umano e ironico di quelli rappresentati da divi dell’epoca come Sylvester Stallone e Arnold Schwarzenegger.
Il risultato era un film perfetto dove la solidità dell’impianto narrativo e la brillantezza del tono permettevano a McTiernan di mettere in scena alcune sequenze d’azione molto spettacolari e (sostanzialmente) assurde, senza che lo spettatore venisse strappato dal patto di sospensione dell’incredulità. Un buon esempio in questo senso è il momento sul tetto del Nakatomi Plaza in cui Bruce Willis, costretto alla fuga da un doppio fuoco incrociato di cattivoni e agenti dell’FBI, si lega una manichetta antincendio alla vita, salta da un grattacielo mentre la sommità di quest’ultimo esplode, resta appeso nel vuoto dove inizia fare il pendolo per sparare alle vetrate e poi sfondarle con i piedi (nudi), caracollando infine all’interno dell’edificio.
Tutto qui? No, perché la manichetta di cui sopra a quel punto precipita nel vuoto e inizia a tirare verso morte certa il nostro eroe che, all’ultimo momento come la tradizione impone, riesce a liberarsi.
Sono quattro minuti di film in cui non viene detta nemmeno una parola (a parte qualche divertente battutina terrorizzata di Willis) e la narrazione è tenuta in piedi solamente dai meccanismi di causa ed effetto. A ogni azione segue una conseguenza che costringe il protagonista ad agire ancora. La situazione è assurda ma il suo svolgimento credibile (non realistico, sia chiaro, il realismo non è importante nei film action, ma la credibilità sì). Alla fine, lo spettatore tira un sospiro di sollievo ed è pienamente soddisfatto da quello che ha visto. Skyscraper, il Die Hard per famiglie fortemente voluto da Dwayne “the Rock” Johnson, cerca di fare la stessa cosa. E fallisce miseramente.
In primo luogo perché tutta la premessa del film è un’enorme tecnobubbola talmente improbabile da non farti credere nemmeno un momento a quello che stai vedendo. Poi perché il protagonista, per quanto menomato, ha la fisicità di un supereroe e manca di quella componente “umana” utile a far credere allo spettatore che possa essere, in qualche misura, fallibile. Infine, perché nella sua volontà di stupire con scene al limite il film non crea alcuna plausibilità e, quindi, nessun coinvolgimento.
Prendiamo in esame quella che è la scena clou del film e che si trova (stranamente) alla fine del primo atto. The Rock ha appena scalato (a mani nude e con una protesi al posto di una gamba) un’impalcatura alta oltre 300 metri. Arrivato sulla sommità, ha spostato la gru, sfondando una parete di vetro e creando una sorta di una passerella che gli dovrebbe permettere di raggiungere il grattacielo in fiamme in cui è rinchiusa la sua famiglia. C’è solo un problema: questa sorta di ponte artigianale appena costruito è troppo corto e, in più, ci sono i poliziotti che stanno arrivando.
The Rock non può tornare indietro e non può andare avanti, non gli resta che saltare. Così prende una breve rincorsa (vale sempre la pena ricordare che il suo personaggio dovrebbe avere la stessa mobilità di un atleta paraolimpico) e spicca un balzo nel vuoto, e ignorando il fatto che il lm ci ha fatto vedere con chiarezza che la distanza da percorrere sarebbe proibitiva anche per Spider-Man, The Rock atterra semplicemente dall’altra parte. E fine.
Nessuna invenzione, nessun meccanismo causa-effetto, nessun prezzo da pagare. The Rock compie un balzo di oltre una decina di metri e poi il film procede oltre, inconsapevole del fatto che, dopo un attimo del genere, raccontato così male e in maniera così improbabile, nessuna minaccia farà mai più tenere il fiato sospeso allo spettatore perché a quel punto è chiaro che è tutto uno scherzo. In sostanza, l’attimo in cui la pellicola dovrebbe decollare è il momento in cui, a differenza del suo protagonista, si sfracella malamente al suolo.
Ma che ci fosse qualcosa che non andava doveva essere chiaro sin da qualche minuto prima, quando sceneggiatore, regista e star del film avevano deciso di far guidare al loro protagonista una moto con cambio tradizionale (quindi, con il pedale delle marce a destra), nonostante questi avesse al posto della gamba destra un arto artificiale che non glielo avrebbe permesso…
Le esagerazioni sono il fulcro dell’action ma la maniera in cui vengono portate in scena è la discriminante tra una pellicola ben fatta e una ridicola. Se possiamo accettare che Toretto sia in grado di far sterzare un’auto in volo è perché la serie di Fast & Furious ha creato una narrativa coerente in cui un evento del genere è in linea con il tono del franchise. Ma se infili assurdità senza costrutto in un meccanismo narrativo che ha la pretesa di essere “serio”, diventi una barzelletta. E Skyscraper, mi duole dirlo, è una barzelletta che nemmeno fa ridere.
L’immagine qui sotto mostra molto chiaramente il problema della sequenza del salto del grattacielo in Skyscraper: le tre linee colorate rappresentano tre (possibili) traiettorie per un salto dalla gru – nessuna delle quali si avvicina a portare il povero Dwayne Johnson al suo obiettivo, quell’unica finestra aperta…
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