Il telefono squilla a vuoto. Guardo l’orologio: le lancette segnano le dieci di sera. Riprovo. Cinque squilli, li conto. Poi risponde una voce registrata, di donna, che mi invita a lasciare un messaggio.
Mi ritorna in mente la storia di Samuel L. Jackson, che dopo aver incontrato Marlon Brando al concerto di Michael Jackson – «Ho sentito questa voce dietro di me, recitava il monologo di Pulp Fiction. Mi giro e… era Brando!» – provò a chiamarlo a casa, ma dall’altra parte gli rispose una voce straniera, cadenza orientale, che diceva: «Ristorante cinese, dica». Era una copertura e forse, mi dico, lo sarà anche questa.
Chuck Palahniuk mi risponde al terzo tentativo. «Hello?», tono pacatissimo, spiazzante, di una gentilezza – ed è difficile notarle certe cose, quando si è al telefono – indicibile. Mi presento; gli dico dell’intervista che avevamo fissato. E lui: «Ah sì, mi scusi: avevo lasciato il telefono nell’altra camera. Mi dica tutto. Ci sono». Cominciamo.
Chuck Palahniuk è uno degli scrittori più chiacchierati e amati degli ultimi anni. In parte il merito è suo, e in parte è dei film – del film, anzi – che hanno tratto dalle sue opere. Bastano due parole, solo due, per capire di chi stiamo parlando: Fight Club. È lui il papà di Tyler Durden. Che ora torna nel seguito, Fight Club 2, pubblicato il 6 ottobre da Bao Publishing.
Prima novità: è un fumetto e non un romanzo. Oceanico, psichedelico, intensissimo. Pieno di sangue, di morti e di pazzia. È la storia di Sebastian («Si fa chiamare così, di questi tempi»), di sua moglie Marla e del loro figlio. E ovviamente è anche la storia di Tyler: alter-ego di Sebastian, pazzo e geniale, e ancora una volta pronto a tutto per conquistare – e distruggere – il mondo. I disegni portano la firma di Cameron Stewart e sono perfetti: si adattano al racconto, sostenendolo; aggiungono quello che serve, e limitano gli eccessi.
Com’è stato lavorare a un fumetto per la prima volta?
«Piacevole. È stato molto divertente lavorare a questo tipo di racconto, e lo è stato soprattutto perché ho potuto farlo con persone più giovani e che fanno questo mestiere da molto tempo. È stato bello essere di nuovo uno studente».
Con Cameron Stewart, che ha firmato i disegni, com’è andata?
«È stato fantastico. Non ha mai esitato a fare niente di quello che gli suggerivo. Ha sempre trovato il modo giusto, più accettabile, per rappresentare anche le cose più terribili e difficili».
In un certo senso, i vostri due stili si compensano a vicenda.
«Sì, credo di sì».
Perché ha deciso di scrivere un seguito a Fight Club?
«Francamente non avrei mai pensato che la storia diventasse così importante nell’immaginario comune, e che le persone potessero esserne ossessionate ancora venti anni dopo. E mi sono sentito in colpa per come mi sono comportato, intendo come autore. Quindi ho voluto raccontare la storia di un padre, e gli stessi problemi che il suo creatore ha avuto. Per la prima volta nella mia carriera, ho avuto il tempo e le risorse per imparare a scrivere fumetti. E ho deciso di raccontare una storia che le persone già conoscevano: la storia migliore, probabilmente, per iniziare una nuova esperienza».
Quindi Fight Club è stato più un mezzo per raccontare una nuova storia che un vero obiettivo.
«In realtà è stato più un tentativo di rimediare a quello che era successo nel primo libro. E poi è stata anche un’occasione per approfondire la storia di un personaggio, andando prima nel suo passato, poi nel suo futuro».
E in questo fumetto c’è anche lei.
«Assolutamente. È stata l’occasione per diventare un personaggio della mia stessa storia, e parlare di quello che succede alle persone quando diventano figure pubbliche, riconoscibili, famose, smettendo in un certo senso di essere persone vere. Ho provato a raccontare questo tipo di dinamiche, da cui sono stato travolto».
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Foto: © Allan Amato
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