Atlanta, Georgia. Richard Jewell (Paul Walter Hauser) è un trentenne sovrappeso che vive ancora con la mamma e si considera un tutore della legge, ma in realtà svolge per lo più lavoretti di sorveglianza. Richard considera sua missione proteggere gli altri ad ogni costo: dunque, durante gli eventi che precedono le Olimpiadi del 1996, è il primo a dare l’allarme quando vede uno zaino sospetto abbandonato sotto una panchina. Questo fa sì che l’attentato dinamitardo del 27 luglio al Centennial Olympic Park abbia esiti po’ meno tragici di quelli previsti dall’attentatore, e Richard diventa l’eroe che aveva sempre sognato di essere: ma la sua celebrità istantanea non tarderà a rivoltarglisi contro e a farlo precipitare dal sogno all’incubo.
A partire da un articolo di Marie Brenner, pubblicato nel 1997 su Vanity Fair con il titolo American Nightmare: The Ballad of Richard Jewell, Clint Eastwood ha tratto il suo ultimo film, incentrato sul racconto di un “eroe” di estrema ambivalenza, in linea con i precedenti American Sniper, Sully e Ore 15: 17 – Attacco al treno. Richard Jewell, da questo punto di vista, rappresenta un ulteriore spaccato sulle componenti più ambigue e chiaroscurali del patriottismo americano, che Eastwood sviscera dalla consueta prospettiva di repubblicano non molto distante da posizioni che, con un po’ di approssimazione, potremmo definire anarcoidi.
Non è un caso, infatti, che il suo sguardo sembra sposare la soggettiva sulla vicenda dell’avvocato Watson Bryan interpretato da Sam Rockwell: un outcast trasandato e irresistibile, che fa il pieno di ironia smozzicata e smorfie di rassegnata indifferenza: un uomo che si è messo in proprio per non soggiacere ad alcun datore di lavoro e che, essendo l’unico legale che Richard conosce, viene scelto da lui come difensore. La loro relazione, fatta di complicità inattese e snickers sgraffignati, regala alla sceneggiatura delle deviazioni persino comiche e paradossali, che sono il cuore del discorso: si può continuare a desiderare ardentemente di essere un servitore dello Stato e un uomo della legge quando il governo, per tramite dell’FBI, fa di tutto per incastrarti a dispetto della tua supposta innocenza?
La storia vera di Jewell, nelle mani di Eastwood, non è dunque altro che un pretesto per un solare atto d’accusa alla politica e a certa stampa, che non esiterebbe a prostituirsi per ottenere uno scoop, anche fasullo, per prima. Il personaggio della giornata dell’Atlanta Journal interpretata da Olivia Wilde, Kathy Scruggs, intrattiene con l’agente Tom Shaw di Jon Hamm una simbiosi utilitaristica ed erotica attraverso cui l’insofferenza eastwoodiana verso le istituzioni e i media diventa lapalissiana, anche con qualche probabile forzatura rispetto alla realtà dei fatti raccontati (il giornale in questione ha minacciato una causa legale proprio per il modo in cui la donna viene rappresentata, tra disinvoltura sessuale e assenza di scrupoli).
Con queste premesse Richard Jewell si configura agilmente come l’ennesimo tassello di una filmografia dalla maturità e dalla tenuta espressiva puntualmente inalienabili: Eastwood, che il prossimo maggio compirà 90 anni, dà l’idea di infischiarsene di tutto e tutti, del politicamente corretto e dei suoi dettami (prevedibile, in tal senso, la quasi totale esclusione del film dai prossimi Oscar, eccezion fatta per la strepitosa prova di Kathy Bates nei panni della mamma del protagonista, Bibi). Non a caso indirizza il proprio mirino verso i contrassegni della cultura a stelle e strisce con un raggio d’azione sterminato che va dalla CNN alla Coca Cola passando l’ottusità guerrafondaia, il possesso di un vero e proprio arsenale in casa come fosse in arrivo un’invasione zombie («Siamo in Georgia, che ti aspetti?») e la cieca violenza di una macchina del fango costruita con tutti i crismi del caso a danni di un uomo grasso, bianco e, per aspirazioni e tendenze comportamenti, anche un bel po’ fascista (quale miglior vittima designata, dunque?).
L’aspetto più interessante di Richard Jewell è il fatto che il regista non assolva e non condanni direttamente nessuna delle parti in causa, alimentando complessità e spunti di riflessione: concede alla stampa una possibilità di redenzione anche minima per tramite della commozione, per esempio, ma non esita a bollare egli stesso il protagonista come un “babbeo bombarolo” senza speranza e tuttavia dotato di una limpidezza morale che quanti lo accusano si sognerebbero. In tale, continuo spiazzamento del giudizio, ancorato comunque all’orgogliosa, inamovibile integrità della normalità rispetto al sistema che collassa (ma senza per questo erigere piedistalli) risiede probabilmente la grandezza del film e lo spessore autunnale, come si suol dire da più parti, di cui il cinema di Eastwood si ammanta da decenni a questa parte.
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