Siamo nella prima metà degli anni ’70. George Miller, un giovane medico, e Byron Kennedy, un giovane aspirante produttore, si sono incontrati a un corso di cinematografia e hanno unito le forze per realizzare uno strano film di fantascienza distopica da girare nel loro Paese natale: l’Australia. L’idea viene a Miller dalla fusione di molti spunti diversi, a cominciare dalla crisi energetica che sta colpendo il mondo occidentale in quel periodo (e che fu anche il motore immobile che fece fiorire una grande stagione di pellicole horror e apocalittiche negli anni successivi), passando per la sua esperienza nei PS ospedalieri dove si era trovato a contatto con un gran numero di persone ferite o uccise dagli incidenti automobilistici, fino alle bande di motociclisti ribelli che avevano iniziato a imperversare anche sulle strade dell’outback australiano, proprio come già era successo negli USA.
Unendo questi spunti e decidendo per un’ambientazione futurista e stilizzata, in modo da rendere la storia più iconica e universale, Miller comincia a concepire lo script di un film di puro movimento, “un film muto con suoni” stando alle sue parole, dalla trama lineare ma dalla enorme potenza cinetica. I problemi per metterlo in scena sono molti e il primo è, ovviamente, quello dei fondi, che sono troppo pochi per poter costruire davvero uno scenario fantascientifico. Regista e produttore optano quindi per costruire un mondo che è sì andato avanti (malamente), ma di poco. Non è un universo post-olocausto ma un mondo sulla soglia di quell’olocausto, un attimo prima del passo fatale.
La società esiste ancora ma sta perdendo i pezzi. La gente fa cose assurde, veste in maniera quantomeno bizzarra (menzione d’onore per il capo della polizia che se ne va in giro con un’armatura da kendo) e, sulle strade, l’unica cosa che distingue un pazzo psicotico da un poliziotto, è il distintivo. La scelta dettata dalla necessità, ma raffi nata dal talento e dall’acume, si rivela vincente e, ancora oggi, il primo Mad Max (Interceptor da noi) è un film magnifico e, per molti versi, più unico e speciale dei suoi (altrettanto magnifici) sequel. Perché se dal secondo capitolo in poi la serie di Mad Max diventerà una delle opere più seminali della fantascienza, oggi, proprio a causa dell’infinita serie di emuli e derivati che ha generato, ci appare meno originale e “più vista” del suo capitolo originale, che resta un film senza precedenti e senza alcuna discendenza. Un mondo alla Willie il Coyote e Beep Beep, sinistramente crepuscolare, creato con mezzi di fortuna nel lontano 1979, che rimane fresco, originale e, purtroppo, poco esplorato. Ma Miller vuole di più e, fortunatamente, due anni dopo lo ottiene.
Con Mad Max 2 il registra può ampliare la sua visione e renderla più ricca e più estrema. “Siamo alla fine del ventesimo secolo: il mondo intero è sconvolto dalle esplosioni atomiche, sulla faccia della terra gli oceani erano scomparsi e le pianure avevano l’aspetto di desolati deserti. Tuttavia la razza umana era sopravvissuta”. Questo è l’incipit della serie Hokuto No Ken, che è forse l’opera che ha “rubato” di più al Mad Max 2 di George Miller. Ora siamo effettivamente in un mondo post-apocalittico, l’umanità è tornata in uno stato di barbarie, si lotta per la benzina e per qualsiasi altra risorsa e si uccide con disarmante noncuranza. In fatto di moda, le cose sono andate persino peggio e se non te ne vai in giro con una cresta alla mohicana colorata, delle spalline da football e pantaloni di pelle, non sei veramente nessuno. Anche leccare coltelli e parlare in maniera strana aiuta parecchio lo stato sociale.
Tutto nella pellicola è più grande, più estremo e più veloce. Quello che non cambia però è la grammatica del linguaggio di Miller, che continua a pescare dal cinema di Sergio Leone (omaggiato in più maniere) e di Kurosawa, ma anche dai cartoni animati dei Looney Toones (e da tutto il loro carico di psicotica violenza, riportata però sullo schermo in maniera brutalmente realistica e non stilizzata) e, ovviamente, dal grande cantore dei motori del cinema americano: Russ Meyer. Il tutto messo in un frullatore e mescolato assieme a polvere da sparo e a benzina, con un alto numero di ottani. Il risultato è un film che è il tripudio del movimento più puro. La storia ruota tutta attorno alla necessità di muoversi perché restare fermi e stanziali significherebbe la morte. I personaggi esplicano le loro funzioni, le loro motivazioni e obiettivi, le loro caratterizzazioni, in funzione delle azioni che compiono nello spazio. Il montaggio è frenetico, quasi subliminale. La regia è un razzo alimentato a plutonio, un vettore dell’azione purissimo che trova il suo apice in un terzo atto che è una sorta di Ombre rosse girato da un John Ford moderno. Un John Ford moderno e strafatto di benzedrina, ovviamente. Quello che sorprende però è l’enorme coerenza che questo caos lucido riesce a mantenere: la narrazione è lineare, progressiva, sensata e la regia, nonostante tutti gli eccessi, rimane sobria e sempre focalizzata su cosa serve davvero alla storia.
n Mad Max 2 nulla è posticcio, di maniera, privo di senso o forzato. Ogni elemento ha il suo equilibrio ed è collegato a tutti gli altri in maniera armonica. Tutto è al suo posto, anche se niente è in ordine. Miller non è uno che agita la macchina da presa a caso per fare movimento. Per il movimento, crea invece un gioco di cause ed effetto per cui a ogni azione segue una reazione e una conseguenza, riuscendo a realizzare un credibile e sensato treno dinamico, solidissimo e inarrestabile. Un capolavoro della storia del cinema. Purtroppo, le cose non vanno ugualmente bene nel terzo, controverso, capitolo che nasce sotto il segno di una tragedia: il produttore Byron Kennedy muore in un incidente con l’elicottero mentre sta realizzando i sopralluoghi del film. E, come se non bastasse… nel mondo è scoppiata la moda di MTV. La prima tragedia lascia Miller profondamente turbato per la morte dell’amico di una vita, al punto che quasi cancella il progetto ormai ai blocchi di partenza; poi ci ripensa e si limita a farsi aiutare alla regia. Per l’influenza e lo stile che MTV esercita sul film, invece, non c’è rimedio.
Sia chiaro un punto però: Mad Max – Oltre la sfera del tuono non è una pellicola brutta in senso assoluto, anzi, rimane un’opera molto piacevole da vedere e rivedere con almeno una scena memorabile che presenta uno dei più fantasiosi combattimenti di sempre. Il problema è quasi tutto nella scrittura, che non ha la lucidità dei capitoli precedenti e che dopo un primo atto incoraggiante si impantana in un secondo atto troppo lungo e a base di bambini perduti, per poi finire a replicare in maniera debole e svogliata il terzo atto del capitolo precedente. Questo film non è un treno dinamico e appena si muove e sembra prendere l’abbrivio, inciampa malamente e deve ripartire da capo, senza mai riuscire davvero a prendere velocità. L’aspetto migliore è sicuramente quello visivo, con una sontuosa fotografia dai colori saturi e una messa in scena, specie nelle prime battute della storia, che mai era stata così ricca, così fantasiosa e così curata. In termini visivi – e solamente visivi – il terzo capitole delle vicende di Max il Pazzo anticipa tutto quello che poi troverà piena gloria nel quarto. Trent’anni dopo. Tanto ci vuole perché Miller trovi un modo per tornare alla sue lande post atomiche.
Ma sarebbe valsa la pena di aspettarne anche cinquanta per un film come Mad Max: Fury Road. In questo capitolo, Miller fa confluire tutti i migliori elementi del suo cinema, per primo la sua incredibile capacità di raccontare un mondo complesso, di delineare con precisione la caratterizzazione dei suoi personaggi e il loro background, di veicolare la storia del film, il tutto solamente attraverso le immagini in movimento. Potrebbe essere un film muto, Fury Road, e non solo sarebbe comunque comprensibile, ma non perderebbe praticamente nulla in termini di efficacia e profondità. E poi, ovviamente, la spettacolarità, la velocità, il montaggio serrato, gli elementi da cartoon ibridati con il cinema più puro, la violenza, i colori, il suono e un implacabile meccanismo di cause ed effetti che alimenta il motore narrativo per due ore di pellicola senza fermarsi un attimo, togliendo il respiro, saturando lo sguardo, assordando le orecchie. Un film “muto con i suoni”, un’idea di cinema purissima, priva di compromessi o concessioni, che strappa il cinema dalle pastoie delle storie troppo raccontate e debolmente mostrate e lo proietta su una delle sue vette più alte, accanto a Quarto potere, Sentieri selvaggi, I sette samurai, 2001: Odissea nello spazio, Lo squalo e a pochi, pochissimi altri. In poche parole: un vero e rarissimo capolavoro.
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