Anche questo mese mi è stato concesso di muovermi liberamente nella disanima di qualche importante scena della storia del cinema e quindi, visto che l’occasione è rara, voglio coglierla al volo per continuare a parlare di quei classici del cinema che, un poco per amore di novità, un poco perché fuori moda, ormai vengono trattati solamente in qualche noioso corso universitario. Anzi, più che di uno deiclassici, parliamo proprio del classico per eccellenza, The Searchers di John Ford, da noi distribuito con il (bel) titolo di Sentieri selvaggi.
Ci sono registi che lasciano il loro segno nella storia del cinema grazie alla loro opera complessiva, magari composta da svariate pellicole. Ad altri, il colpo riesce con un solo film. Ai più talentuosi, certe volte, basta una sequenza di pochi minuti. A John Ford sono serviti esattamente trenta secondi, cioè il tempo che intercorre tra il cartello “Texas 1868” e la prima parola pronunciata da Walter Coy, all’inizio del film. Ma andiamo con ordine.
Siamo nel 1956 quando John Ford gira Sentieri selvaggi, e il regista è già un maestro riconosciuto e venerato del genere western e del cinema in generale. Ha già girato Ombre rosse e la trilogia della cavalleria (composta da Il massacro di Fort Apache, I cavalieri del nord ovest e Rio Bravo), ha spiegato l’espressionismo tedesco agli americani con Sfida infernale, ha combattuto e vinto innumerevoli volte la Seconda guerra mondiale e si è tolto il gusto di girare anche film leggeri (Un uomo tranquillo), importanti affreschi storici (Com’era verde la mia valle) e pellicole bizzarre a base di musica, boxe e gorilla (Il re dell’Africa). Arrivato a sessantadue anni ed essendo già diventato una leggenda vivente, nessuno si aspetta che farà ancora di più di quanto ha fatto fino a quel punto. E invece.
Invece si imbarca nell’adattamento di un complesso romanzo western di Alan Lemay, reso ancora più ostico e crepuscolare dal bell’adattamento in forma di script di Frank S. Nugent, lavorando con un produttore inesperto (che, forse proprio per questo, gli lascia la mano sorprendentemente libera) e con l’idea in testa di costringere John Wayne, l’eroe nazionale che lui stesso ha forgiato, a calarsi in un ruolo oscuro e ambiguo, lontanissimo dai personaggi che il Duca era solito interpretare. Ma la storia e gli esiti di Sentieri selvaggi sono noti e, comunque, non abbiamo abbastanza spazio per approfondirli. A noi interessano solo quei trenta secondi iniziali.
Che partono da un nero che è già metatesto, rappresentando tanto l’oscurità filmica della casa di frontiera in cui ci troviamo, quanto il “buio in sala” della visione cinematografica (1).
Uno spiraglio si apre, fino a diventare l’uscio di una porta mentre la silhouette di una donna entra in campo da sinistra (2).
L’azzurro del cielo e l’arancione delle montagne squarciano le tenebre del nostro piccolo mondo chiuso. Un attimo contemplativo. Poi la donna muove un passo e la camera la segue. Fuori dal nero, dentro la luce. Il panorama si allarga e davanti a noi si apre la frontiera. Un universo vasto, infinitamente più grande e intimorente di quello a cui siamo abituati. Questo è il West. Questo è John Ford. Un regista dotato di un occhio (uno solo, l’altro è coperto da una benda) così enorme e così capace di abbracciare vasti scenari, che il buio di una sala cinematografica non può contenerlo del tutto (3).
La donna esce dalle ombre, si poggia a una trave del porticato della casa (4).
Controcampo su di lei: è Dorothy Jordan, che nel film interpreta Martha. La donna ha visto qualcosa. Trattiene il respiro, in un misto di paura e speranza. Il vento dell’ovest la coglie e lei, per guardare meglio, si protegge gli occhi con la mano (5).
Passiamo nella sua soggettiva. C’è un cowboy in arrivo. Non sappiamo ancora di chi si tratta ma sappiamo che, racchiuso in quella figura solitaria in sella a una bestia stanca e impolverata, c’è tutto il genere del western. Il cavaliere non è solamente un personaggio della vicenda a cui stiamo assistendo ma è il mito fondativo americano fatto carne e sangue (6).
Di nuovo un controcampo. La donna ora è incredula. Dalla quinta a sinistra entra in campo il suo compagno, Walter Coy, che scruta l’orizzonte anche lui, poi guarda la donna e dice: «Ethan?». Il resto, come si sul dire, è storia. Anzi, Storia (7).
Trenta secondi. Trenta, minuscoli, secondi, per raccontare un mondo, un paese, uno stile di vita, un ideale. Trenta secondi per dire tutto quello che conta sulle potenzialità di quell’incredibile finestra capace di trascinarci in ogni tempo e in ogni luogo, che è il cinema. Trenta secondi per parlarci di quello che è il linguaggio cinematografico, e di quello che dovrebbe sempre essere. Trenta secondi in cui sono condensati tutto il talento, il mestiere, il sapere, la visione artistica ed esistenziale di una vita.
Trenta secondi.
Una semplice carrellata in avanti.
Due controcampi.
Il cinema.
John Ford.
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