Rocky legacy: la recensione di Creed
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Rocky legacy: la recensione di Creed

Va in scena la staffetta tra due generazioni di combattenti e tra due generazioni di spettatori, sotto lo sguardo dolente di uno Stallone da Oscar

Rocky legacy: la recensione di Creed

Va in scena la staffetta tra due generazioni di combattenti e tra due generazioni di spettatori, sotto lo sguardo dolente di uno Stallone da Oscar

Creed non è molto diverso da Star Trek o Star Wars nelle versioni di JJ Abrams, resta l’idea di un cinema generazionale, nuovi eroi vengono introdotti dentro immaginari datati, scortati dalle vecchie star. Il film di Ryan Coogler è però più coraggioso già nel titolo, non investe sull’eco sonora del capostipite e dice subito che siamo all’inizio di un’altra storia.

C’è inoltre il portato simbolico di un Rocky solo, vecchio e malato, crepuscolo di un’epoca e di un modo di intendere il mestiere della star hollywoodiana, quello degli amici Schwarzenegger e Willis che ancora sopravvive in Tom Cruise, cioè uno star system che investe da sé in idee e personaggi, che si prende la responsabilità delle sue invenzioni, che incarna mitologie popolari, che produce.

Il corpo di Stallone è in buona parte il film, c’è una forma di sincerità tutta muscolare in lui – ma anche il cuore è un muscolo – che non dà scampo, e permette di costruire una manciata di inquadrature con poco più che la sua sagoma, come nella seconda parte del film, quando il ragazzo si allena e vediamo Rocky sfocato in secondo piano, sull’orlo di qualche altrove. Ecco, questa tensione alla sparizione è una forma di allarme, tiene sempre pronti alla commozione, ed esplode quando Sly – in un monologo che gli potrebbe valere un Oscar – spiega in pratica che non gli resta che morire.

Oltre a tutto questo c’è il puro film sportivo naturalmente, ovvero l’ambizione, la bravura e la fatica del ragazzo. Manca invece la ribellione, nonostante una notte in carcere; il giovane Creed non è una testa calda, vive dentro un triplo vincolo filiale (la madre adottiva, Rocky e Apollo) che moltiplica la dedizione, e viene battezzato nell’ultimo incontro, quando il film gli riserva cinque minuti da pelle d’oca: prima la campana e la musica leggendaria della saga, poi un lampo del volto di suo padre Apollo, che lo risveglia, lo mette in piedi.

Quest’ultima è anche un’intuizione meno banale di quel che sembra, perché chiude un “montaggio sentimentale”, fatto di ricordi, ed è invece un secondo di vita che il ragazzo non ha mai vissuto di persona, cioè è puro immaginario, suo e nostro. Dice che prima ancora degli amori e prima ancora dei maestri, ci sono un’eredità biologica e una forma di mistero che fanno le dimensioni del nostro talento.

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