Un uomo si trova nella suite di un hotel di lusso. Bussa alla porta una ragazza, bionda, bella, in tailleur professionale, che lo sottopone a un’intervista formale. Via via che le domande si fanno più personali, il gioco si chiarisce: Rebecca è una escort dominatrix, Hal il suo ricco cliente, pronto a tutto, anche a pulire ogni centimetro del bagno in mutande.
È da qui che parte l’inizio del nuovo romantic thriller di Zachary Wigon, che ha già lavorato sugli inganni, i trucchi, i buchi neri dei rapporti uomo-donna in The Heart Machine. Chiusi in una stanza, Margaret Qualley (figlia di Andie MacDowell e autostoppista hippie in C’era una volta a… Hollywood) e Christopher Abbott (la serie Girls) rimbalzano tra giochi erotici, rimbrotti, minacce, ricatti, svelano lati oscuri, ansie e fragilità.
Sanctuary, presentato nel Concorso Progressive Cinema della Festa del Cinema di Roma (uscirà al cinema con I Wonder Pictures), fin dall’inizio è un film da camera, che negli spazi angusti di interni asettici trova naturalmente una sua dimensione tutta mentale: il contatto fisico è infatti ridotto al minimo, se non addirittura al grado zero, in favore di un piacere che passa dalla manipolazione cerebrale e dalla degradazione dell’altro, dalla sua coercizione, dalla riduzione del partner maschile pagante a bersaglio passivo di strali e umiliazioni, a una sostanziale nullità azzerata da istinti proibiti, osceni e innominabili (quella del titolo è la safe word che vige tra i due protagonisti nelle loro dinamiche masochistiche estreme).
Abbott, attore con viso e fisicità perfetti per questa tipologia di personaggi, aveva già avuto un ruolo simile in Piercing di Nicolas Pesce, dove la sex worker era interpretata da Mia Wasikowska, solo che in quel caso il motore narrativo criminoso legato al suo personaggio era parte integrante fondamentale della posta in gioco. Qui invece il suo maschio dalla volontà sottomessa è per gran parte del film un punchball destinato a incassare, anche se le sorprese sono ovviamente sempre dietro l’angolo.
La prima parte di Sanctuary, nel suo sottile equilibrio tra erotismo morboso e noir dell’anima, è estremamente efficace, tanto nell’andamento tambureggiante della scrittura quanto nell’accarezzamento perturbante di superfici levigate e nella valorizzazione quasi pornografica di sfoghi ombelicali, in rapporto ai quali lo spettatore è chiamato a più riprese a a un sussulto di eccitazione (in tutti i sensi) o a un surplus di attenzioni per orientarsi nel mellifluo duello senza esclusione di colpi tra le parti.
Dopo un primo blocco in cui le carte vengono progressivamente, inesorabilmente svelate – come in un gioco di seduzione vedo-non vedo nel quale ci si denuda un pezzo dopo l’altro – man mano che ci avviciniamo al twist finale è come se Sanctuary volesse approdare a un tracciato più rassicurante, più dalle parti del canonico ping pong morale tra due psicologie al collasso (sul messaggio “politico” del film non si può invece dire molto di più, per evitare spoiler). Si mette così il silenziatore a un ingranaggio dalle eccitanti e degenerate premesse, trovando in zone forse meno torbide ed erogene, ma anche più sfumate e contraddittoria, una chiusura del cerchio dal romanticismo fortunatamente né scontato né reazionario, ma straniante e peculiare.
Di pari passo all’esaltazione ombrosa e al ribaltamento delle dinamiche schiavistiche e di potere in ambito sessuale, che in Sanctuary è un processo all’insegna della costante negoziazione dei ruolo di vittima e carnefice, risplende nuovamente, come già nel comunque pestilenziale Stars at Noon di Claire Denis, la stella di Margaret Qualley: la candidata all’Emmy per la strepitosa miniserie Maid, che vedremo anche nel nuovo film da regista in solitaria di Ethan Coen e nei panni di Ginger Rogers accanto a Jamie Bell in Fred, si conferma attrice tattile e perturbante, specie nell’abbagliante bellezza con cui sembra occupare la scena già solo con gli occhi ancor prima che con il corpo e lo sguardo.
Foto: Rumble Films, Charades, Mosaic Film, Hype Film
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