SanPa, la prima miniserie docu-serie italiana prodotta da Netflix della quale si è parlato in lungo e in largo nelle ultime settimane, è molto di più della semplice ricostruzione delle vicende della comunità di recupero per tossicodipendenti di San Patrignano, situata nel riminese e gestita per anni da Vincenzo Muccioli: patriarca e padre fondatore, totem controverso e discusso, un po’ deus ex machina e un po’ salvatore messianico delle vite di tantissimi uomini e donne e punto di riferimento bigger than life.
Un uomo caricatosi, in vita, della responsabilità di un’evangelizzazione che ha fatto proseliti, ma ha generato anche furiosi oppositori sui modi e sui metodi. Nel tentativo, per alcuni umanissimo e indispensabile, per altri morboso e narciso, di salvare un’intera generazione di tossici dall’autodistruzione, di scongiurare un buco nero di cui lo Stato non si fece e non si sarebbe fatto carico. Un’entità capace di riunire su di sé, in un sol colpo, le stigmate sacre e profane di stregone, spiritista, para-psicologo, ciarlatano, santo.
Rispetto alla media dei prodotti del genere, spesso furbamente a cavallo tra il crime e la true story, se SanPa ha fatto così tanto discutere è, in primo luogo, per via della sua densità linguistica e non certo per l’ambiguità. Ci sono le interviste ad ex-tossicodipendenti ospiti della comunità, naturalmente, oltre che a giornalisti, psichiatri e tante altre figure chiave del contesto di San Patrignano, ma il montaggio del materiale datato è così sfaccettato e potente da evitare la sensazione di trovarsi al cospetto di una mera sequela di talking heads per prediligere piuttosto la drammatizzazione dell’inchiesta televisiva.
Il flusso di informazioni è ora epico ora confidenziale, ora esplosivo ora macabro e chiaroscurale: una ricchezza di toni che, evidentemente, contribuire a toccare tanti nervi scoperti e a generare altrettante occasioni di dibattito. A partire da un lavoro d’archivio non meno che eccezionale, sostenuto oltretutto dalla seducente e toccante affabulazione, tra gli altri, di Fabio Cantelli, laureatosi in Filosofia e successivamente assunto come responsabile della comunicazione di San Patrignano (la sua autobiografia, dopo SanPa, è ora legittimamente contesa da otto case editrici).
Siamo poi nell’Italia delle contestazioni giovanili e degli anni di piombo, in un decennio assai poco metabolizzato e storicizzato come gli anni ’70. Quando San Patrignano nasce, nel 1978 a Coriano, paesino in provincia di Rimini, siamo all’indomani del ’77, un anno fondamentale anche dal punto di vista della politicizzazione delle immagini, oltre che della protesta e delle scorie sociali mal assorbite e ancor meno ricomposte a distanza di ormai mezzo secolo.
Un contesto simile a una polveriera nel quale SanPa ci catapulta fin da subito, e con grande vividezza, per creare la cornice adeguata al focus più specifico in cui verremo immersi: quello su una comunità sottratta al consumo di massa di droga che in quegli anni in Italia si andava diffondendo, un luogo che viene presentato ora come utopico ora come concentrazionario, dove le catene fisiche si confondevano a quelle morali generando dannazioni personali e collettive blindate e serrate a doppia mandate le une sulle altre.
SanPa: Luci e tenebre di San Patrignano ideata e prodotta da Gianluca Neri (autore anche della sceneggiatura con Carlo Gabardini e Paolo Bernardelli) con Nicola Allieta, Christine Reinhold e Andrea Romeo, diretta da Cosima Spender e montata da Valerio Bonelli, Manuela Lupini, Tommaso Gallone e Francesca Sofia Allegra, riesce a tenere sempre l’alta l’asticella del particolare e dell’universale mettendo a fuoco le intersezioni inestricabili tra consumo di droga e disagio psicologico ancor prima che sociale connesso al suo utilizzo (il più difficile, inevitabilmente, da diagnosticare, come in qualsivoglia depressione o dipendenza). Ogni storia raccontata al suo interno è una Storia più grande, il racconto è scandito in cinque capitoli emblematici della durata di un’ora (Nascita, Crescita, Fama, Declino e Caduta), la messa a punto di una complessità propriamente detta è la stessa suggerita dal sottotitolo: luci e tenebre, appunto, nessuna risposta facile, e dunque anche la possibilità di strumentalizzare il dibattito ponendosi da una parte o dall’altra della barricata.
SanPa non si riduce mai, in ogni caso, alla macchietta a effetto del torbido, al freak show, allo scombussolamento del disagio e dell’eccesso. Non è insomma, risposta trionfale delle visualizzazioni in streaming a parte, la nostra Tiger King, ma un grande trattato socio-politico su come la sovraesposizione mediatica possa rendere ancor più fatale e contraddittoria la complessità già notevole di un luogo preposto (esclusivamente?) al recupero di esseri umani: individui che hanno sostituito i loro desideri con un bisogno unico, totalizzante e terribile soprattutto nell’intersezione di anima e corpo, denigrazione e auto-assoluzione, vita amplificata e vita negata. Tutte cose che SanPa racconta benissimo, e con notevole sguardo d’insieme: la speranza, esplicita e inevitabile, è che possa aprire un filone tutto nostrano.
Foto: © Netflix
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