I termini “serie” e “TV” sembrano aver perso il loro significato primo.
Pensiamo al mezzo di fruizione: se un tempo la televisione era il medium principale, Internet e la conseguente “piaga” della pirateria hanno spinto il prodotto dentro lo schermo ancor più piccolo di un computer. Lo scorso aprile la puntata 4×02 de Il Trono di Spade ha segnato il record di 1,5 milioni di scarichi in tutto il mondo nel primo giorno, a fronte di un ascolto televisivo di 8 milioni negli Stati Uniti. L’importanza di Internet è stata poi sancita da Netflix e House of Cards, prodotto creato appositamente per la visione su web e inserito online completo, con buona pace della cadenza settimanale. Esperimento vincente: addirittura il 2% degli utenti Netflix (più di 33 milioni in totale) ha visto l’intera seconda stagione nel primo weekend, confermando che la moda del binge watching sta prendendo piede sempre di più. In un intervento all’Edinburgh International Television Festival, che ha suscitato notevole scalpore, Kevin Spacey ha dichiarato: «Con questa nuova forma di distribuzione abbiamo dimostrato di aver assimilato la lezione che l’industria della musica non ha imparato: dare alla gente ciò che vuole, quando lo vuole, nella forma che vuole e a un prezzo ragionevole. E pagheranno volentieri invece che rubare» (per accedere a Netflix, a esempio, basta sottoscrivere un abbonamento da 7,99 dollari al mese).
Si può dunque parlare ancora di serialità? Non nel senso classico del termine. Un gran numero di utenti non aspetta più l’appuntamento con la singola puntata ma preferisce godersi un’intera stagione in pochi giorni. Ciò è stato favorito da alcuni cambiamenti riguardanti l’idea stessa di serie tv. La riduzione a tredici episodi iniziata nel 1999 con I Soprano, ad esempio, ha aumentato la compattezza narrativa e la capacità introspettiva sui personaggi. La scrittura televisiva si è avvicinata a quella cinematografica, con una trama principale molto più robusta rispetto a quelle del singolo episodio. Mentre il cinema ha subito un notevole impoverimento contenutistico a causa della serializzazione dei prodotti e della loro sempre maggiore targetizzazione, le serie sono invece diventate il contenitore dove la narrazione “forte” ha trovato miglior collocamento, attirando molte star di Hollywood, in progressiva migrazione dal grande al piccolo schermo ormai da qualche anno. Il recente successo di True Detective ne è conferma piena.
Quando i grandi cineasti come Steven Spielberg o Martin Scorsese hanno poi iniziato a interessarsi all’evoluzione di questi processi creativi anche l’aspetto produttivo ha subito una notevole revisione. Nel 2001 il papà di E.T. e Indiana Jones decise di realizzare insieme a Tom Hanks la miniserie Band of Brothers, il cui budget di produzione arrivò a 125 milioni di dollari, cifra degna di un blockbuster cinematografico. Il “gemello” The Pacific, nel 2010, si dilatò verso una cifra mai confermata che oscilla tra i 180 e i 270 milioni. Anche le serie sono lievitate visibilmente: nel 2010 il pilot di Boardwalk Empire diretto da Scorsese è stato prodotto con 18 milioni di dollari, record surclassato l’anno successivo dal flop di Terra Nova, non a caso realizzato ancora con lo zampino di Spielberg.
Tale sforzo economico ha ripagato? Oggi più che mai è complesso rispondere alla domanda, e per più di un motivo. Ciò che è cambiato altrettanto radicalmente nel tempo è, infatti. anche il concetto di successo di una serie tv. Con l’avanzata inarrestabile delle reti via cavo e di tutti i nuovi canali ancillari il “vecchio” sistema dello share ha perso la sua centralità. Ad attirare gli investitori pubblicitari e/o i colossi mediatici pronti a inserire le serie in pacchetti d’intrattenimento più ampi adesso c’è anche il cosiddetto “buzz”. […]
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