Seven, Recchioni racconta lo sbaglio più fortunato della storia del cinema
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Seven, Recchioni racconta lo sbaglio più fortunato della storia del cinema

Ecco come il thriller firmato da David Fincher è arrivato al cinema praticamente per caso, grazie a un copione spedito per errore

Seven, Recchioni racconta lo sbaglio più fortunato della storia del cinema

Ecco come il thriller firmato da David Fincher è arrivato al cinema praticamente per caso, grazie a un copione spedito per errore

A guardarlo oggi, Seven è un classico. Un classico dei thriller. Un classico del sottogenere identificato come “American Neo-Noir” (un tipo di cinema che si rifà al cinema nero e hard-boiled dei tardi anni ’40 e dei ’50, mutuandone i tipici angoli di inquadratura e gli ambigui temi morali e psicologici, per calarlo ai giorni nostri, utilizzando soluzioni visive moderne). E, ovviamente, un classico del cinema anni ’90, diretto da un grande regista e interpretato da due divi di Hollywood. Ma, quando è uscito, le cose non stavano affatto così.

Prima di tutto, Brad Pitt, che era già abbastanza famoso ma che di grandi film da protagonista, ne aveva fatto solo uno (e anche brutto: Vento di passioni). Morgan Freeman, di contro, si era già portato a casa due nomination come miglior attore non protagonista con A spasso con Daisy e Le ali della libertà, ma non era uno che se lo mettevi sul poster ti faceva staccare biglietti in automatico. Quanto a Gwyneth Paltrow e, soprattutto, Kevin Spacey, erano dei completi sconosciuti di belle speranze. In compenso, il regista, David Fincher, era diventato abbastanza noto in tempi recenti, ma per i motivi sbagliati. Era infatti, a detta dei fan intransigenti, l’uomo che aveva rovinato il franchise di Alien, firmandone un controverso e produttivamente difficilissimo, terzo capitolo. Quanto alla futura star della scrittura, Kevin Waller, fino a quel momento aveva firmato giusto due horror di serie B. Insomma, non c’era davvero motivo di credere che il film potesse essere qualcosa di speciale. O di bello. O anche, solamente, di vagamente interessante. Se poi teniamo conto che tutto il film era nato praticamente per sbaglio…

Versione breve di una storia lunga: Waller ha piazzato il suo script, nato dalle suggestioni che gli erano nate mentre passava uno squallido periodo della sua vita a New York, alla New Line, casa di produzione all’epoca specializzata in horror a basso costo (ma dall’alto profilo commerciale), facente parte del gruppo Warner. Quelli degli studios sembrano contenti della sceneggiatura a parte il finale, che proprio non va bene, è troppo cupo, troppo psicologico, troppo privo d’azione. Quindi Waller lo riscrive, secondo i dettami di chi ci mette i soldi. Lo script comincia a girare e finisce sulla scrivania di David Fincher che sta passando un brutto momento della sua vita. Fino a pochi anni prima, Fincher era un genio dei video musicali e della pubblicità, ma poi si è fatto tentare da Hollywood e si è imbarcato nella produzione pericolante di Alien 3. Tutta la lavorazione del film è stata un incubo e la pellicola ha floppato al botteghino, oltre a essere stata maltrattata dalla critica. Nel momento in cui riceve la sceneggiatura di Seven, Fincher ha già preso la decisione di non voler mai più tornare dietro la macchina da presa per realizzare un film. Però quello script lo legge ugualmente e gli piace molto, specie quel finale cupo, psicologico e privo d’azione. Perché gli studios gli hanno mandato il copione sbagliato, quello vecchio, quello con il finale originale concepito da Waller. Fincher accetta la regia in base a quello e inizia così una battaglia di volontà e potere, che viene risolta solo grazie all’intervento di Brad Pitt, che si impone e accetta di partecipare al film solo se ci sarà la scena della scatola. Ma che ha di così particolare questa sequenza?

Siamo attorno all’ora e cinquanta di film. Nel deserto. Una vecchia roulotte abbandonata. Tralicci dell’elettricità che si perdono a vista d’occhio (1).

Brad Pitt cammina nervoso. Freeman è più compassato. Sono in attesa di qualcosa. Il rottame di un’auto. L’elicottero di sorveglianza che osserva la scena dall’alto. Il tono della narrazione alterna gli estetismi da spot pubblicitario propri di Fincher alla visione documentaristica sullo stile delle show televisivo COPS, voluta da Darius Khondji, il direttore della fotografia. Kevin Spacey viene fatto scendere dall’auto. La sua tuta da carcerato è l’unica nota di colore sulla scena (2).

Un cane morto. “Io non sono stato”, dice Spacey. Primi piani dei protagonisti si alternano ai campi lunghi dell’elicottero. Una passeggiata nel deserto (3).

Arriva un corriere in un furgone. Freeman corre verso il corriere (4). 

Spacey, ora inginocchiato a terra, ha del tempo per fare una bella chiacchierata con Pitt (5).

Arriva il furgone: qui la grammatica della tensione è canonica, tipica del genere. Il corriere ha un pacco per David (Pitt). Freeman si volta ad osservare il compagno, poi, dopo i dovuti controlli, prende carico della scatola e fa allontanare il fattorino. Torniamo su Spacey. Freeman decide di aprire la scatola e ne scopre il contenuto. “C’è del sangue”. Scatta in piedi, pieno di orrore, comprendendo immediatamente quello che potrebbe succedere (6).

“Cosa c’è nella scatola?”, grida Pitt. “Getta la pistola!” urla Freeman mentre corre verso di lui. Stringiamo su Spacey che rivela a David di essere stato a casa sua quella mattina e di aver preso un souvenir. John Doe desidera la vita normale dell’agente (7).

È l’invidia il suo peccato. E siamo a sei, ne manca ancora uno. Pitt inizia a urlare. Vuole sapere cosa c’è nella scatola. Non vuole credere alla verità che, a livello istintivo, ha già intuito. Freeman lo implora di gettare la pistola. “Trasformati in vendetta, David. Trasformati in IRA”. E con questo siamo a sette, il cerchio si chiude. Ora la regia si fa frenetica, alternando la sua triplice natura. Estetismi da spot pubblicitario che passano il testimone a primissimi piani cinematografi ci che, a loro volta, cedono il passo al racconto documentaristico con camera a mano (8).

C’è persino un lens flare da qualche parte, in questo flusso concitato creato in sala di montaggio. La tensione è al massimo ma il destino si compie in campo lungo, dove la violenza appare sempre peggiore e sempre più vera (9).

Poi stringiamo in una brutta soggettiva dal basso, figlia di tempi fortemente tarantiniani (10), e poi si torna sull’elicottero, a sancire il momento di cronaca. Stacco. Si passa all’epilogo mentre quel film da cui nessuno si aspettava niente, entra nella storia del cinema grazie a un copione sbagliato.

Foto: ©New Line Cinema

In occasione della pubblicazione della rubrica, Recchioni ha realizzato in esclusiva per Best Movie un’illustrazione dedicata a Seven, che trovate nella versione digitale già disponibile da oggi (sia per iOS sia per Android) e in edicola dal 3 ottobre, a pag. 119. 

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