Sinister 2, ipnotizzati dalla morte. La recensione
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Sinister 2, ipnotizzati dalla morte. La recensione

Filmati amatoriali agghiaccianti e interessanti spunti di riflessione nel secondo capitolo della saga horror in uscita il 3 settembre

Sinister 2, ipnotizzati dalla morte. La recensione

Filmati amatoriali agghiaccianti e interessanti spunti di riflessione nel secondo capitolo della saga horror in uscita il 3 settembre

Quello della morte in diretta è un aspetto a cui il cinema ha dedicato attenzione spesso e volentieri e in diverse declinazioni. Le più estreme affiorano negli snuff movie, filmati amatoriali in cui vengono mostrate torture con inevitabile dipartita della vittima di turno. Fa tutto parte della spettacolarizzazione della morte a cui ormai siamo abituati e che la saga di Sinister sfrutta per raccontare la storia di un demone che rapisce bambini dopo averli trasformati in killer sadici che sfogano la loro anima nera (e corrotta dal Male) sterminando la propria famiglia. E riprendendo tutto in super 8.

Nel primo capitolo con Ethan Hawke il filmato del brivido era solo uno, nel sequel la catena in pellicola della morte si allunga, esagera, esibisce violenze grafiche e inquietanti che rappresentano il cuore del film e si riallacciano all’attualità non senza scosse. Impossibile osservare – ipnotizzati dall’orrore – la fine delle famiglie massacrate nel film senza ripensare al caso recente della sparatoria in Virginia, dove hanno perso la vita una reporter e il suo cameraman: una scena trasmessa prima in diretta tv e poi condivisa sui social dallo stesso omicida, che aveva filmato col telefonino il folle gesto. Sinister 2 racconta del voyeurismo macabro di oggi, mette alla prova l’occhio indurito dello spettatore e interroga su dove sia la soglia del mostrabile in una società in cui la morte non è più un tabù. Lo fa con una struttura horror che gioca sui cliché del filone soprannaturale mischiandoli a quelli del thriller e del dramma famigliare, che degenera in dinamiche di violenza domestica.

Difficile, oggi, trovare un horror che offra tanti e tali spunti di riflessione (l’ultimo che ci aveva convinto in questo senso era stato Unfriended), anche se la sceneggiatura di Scott Derrickson, regista del primo episodio, seppur lineare non riesce a tenere insieme i pezzi in maniera del tutto omogenea. Le pecche stanno in qualche stereotipo narrativo di troppo e la superficialità con cui viene approfondita la storyline della madre protagonista (Shannyn Sossamon) e dei suoi due figli: si fosse scavato con più coraggio all’interno dei fragili e drammatici equilibri del loro nucleo famigliare, tutto avrebbe acquistato maggior spessore.

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