Fino a che punto la saga di Smetto quando voglio sia un film in grado di bucare l’immaginario collettivo lo si capisce da ciò che viene proiettato poco prima della conferenza stampa, a proiezione di Smetto quando voglio – Ad honorem appena ultimata: una clip promozionale girata con lo stile patinato e la fotografia perlacea del tipico spot d’ambiente scientifico e accademico, di quelli in cui le ricerche vengono spiegate attraverso grafici smart e parole fuoricampo declamate col vocione ammiccante.
Solo che qui si parla proprio della trilogia degli Smetto quando voglio di Sidney Sibilia, si spiega perché il terzo capitolo faccia ridere più degli altri due con sicurezza matematica, a fronte di studi scientifici autorevoli inventati di sana pianta, su cui si ironizza. Sembra un oggetto messo lì per strappare due risate ai giornalisti e ai presenti e nulla più, ma in realtà è un oggetto di marketing finissimo, che ha addosso la freschezza e la giocosità proprie di tutta l’operazione, capace di trasformare il precariato in commedia e un pugno di intellettuali e ricercatori nei gestori di un giro criminale incentrato, per tornare al primo capitolo da cui il fenomeno ha preso vita, su una droga innovativa.
Dopo essersi lasciati alle spalle anche la sfida del sequel, Smetto quando voglio – Masterclass, vinta solo in parte al botteghino, la banda va ora incontro al gran finale nel terzo ed ultimo capitolo, Smetto quando voglio – Ad honorem (in sala dal 30 novembre in 300 copie, con un passaggio al Torino Film Festival nella sezione Festa Mobile), incentrato su un’evasione dal carcere di Rebibbia e addirittura su un attentato da sventare. Nel frattempo in Spagna stanno iniziando le riprese del remake del film, come ricorda il produttore Matteo Rovere, e in America ne hanno già acquistato i diritti.
Per il regista Sidney Sibilia è però, prima di tutto e inevitabilmente, tempo di bilanci, visto che per lui e per tutti si chiude un ciclo e probabilmente anche un pezzo di vita. «Per gli spettatori sono trascorsi quattro anni dal primo film, per noi sei invece e considerando la scrittura anche un po’ di più. La cosa bella delle saghe è che creano un senso di nostalgia, era quello che provavo io quando si chiudeva una saga che guardavo da spettatore ed è bello pensare che siamo riusciti ad emulare questa sensazione».
Gli fa eco il protagonista Edoardo Leo, interprete del protagonista, il ricercatore neurobiologico Pietro Zinni: «C’è un’emozione particolare nel chiudere un percorso: l’ultimo giorno di riprese, quando mi sono tolto la giacca di Pietro Zinni e ho realizzato che non avrei mai più interpretato questo personaggio ho ripensato a quando venne a trovarmi questo ragazzo di Salerno (Sibilia, ndr) a propormi una sceneggiatura perché aveva il sogno di realizzare la sua opera prima. Mai e poi avremmo pensato di finire a parlare addirittura di una saga…».
Ricaccia indietro la lacrima anche Stefano Fresi, che dopo le sue dichiarazioni si allontana precipitosamente per scappare su un set che lo vede impegnato. «Questo viaggio è durato praticamente come un liceo, spero che continueremo a fare le cene proprio come al liceo e guardarci i film insieme, perché mi mancano già moltissimo tutti quanti. Devo tanto a Smetto quando voglio, avrei voluto dare altrettanto ma sento di aver ricevuto di più io, dalla saga e da tutti i miei compagni di viaggio».
Sibilia però è il solo vero gran visir della conversazione, è lui a tirare le fila di tutti i temi che vengono tirati in ballo e dimostra una sicurezza nel disegno d’insieme e un sincero divertimento per ogni dettaglio casuale che è difficile non immaginarlo sul set, a gestire tutti gli elementi in ballo nella più sorprendente macchina comica della nostra commedia recente. «Se avete degli amici che vogliono fare delle trilogie, ditegli di no, è un’esperienza faticosissima! Adesso però uscirò dal mondo di Smetto quando voglio: il mio prossimo film non avrà “smetto” nel titolo, potete scriverlo perché questa è la notizia! Sono il primo a non sapere dove andrò adesso e a essere curioso su quello che farò, ma di sicuro non renderò seriale l’universo della banda, anche se all’inizio mi avevano proposto dei prequel. Dopo la forza di una banda vorrei raccontare la forza di un singolo, però, questo posso dirvelo».
Smetto quando è voglio è naturalmente una commedia, ma ha dalla sua un elemento che poche commedie possono vantare, specie in Italia: un cattivo, o addirittura più di uno nel corso del trittico. «Il Murena di Neri Marcore è il grigio per me, il Walter Mercurio di Luigi Lo Cascio il nero e Pietro Zinni naturalmente il bianco. Volevo prendere questi tre personaggi e poi portarli in direzioni diverse per vedere cosa succedeva. Il Murena in questo terzo capitolo è meno carico, non deve interpretare il ruolo del cattivo quindi non ha il romanesco forzato del passato, è quasi un buono. Per lavorare al Murena ci vedevamo a casa di Neri, provando delle giacche, studiando il personaggio. Quello di Luigi invece era il personaggio che mi preoccupava di più perché non si vede tutti i giorni un cattivo così integrale in una commedia. Per lui mi sono ispirato al geometra Calboni, la nemesi di Fantozzi».
«Quando lavori su certi personaggi che sono dei cattivi – precisa Lo Cascio – magari non ti soffermi sulla loro cattiveria, ma sulle premesse dell’odio, sulle radici del delirio tirannico d’onnipotenza a partire da un trauma. Addirittura c’è bisogno di tutta la banda per fronteggiare il mio Mercurio, oltre che di quello che ormai è un semicattivo come il Murena di Neri Marcoré».
Proprio il diretto interessato Marcoré, sul suo irresistibile villain criminale, non potrebbe essere più entusiasta: «Ho abbracciato Sidney alla fine di quest’avventura, quando ho finalmente visto il film, l’ho ringraziato per avermi dato la possibilità di farne parte, di interpretare un ruolo così diverso da quelli che di solito mi offrono. I nostri personaggi sono tutti così belli e definiti che il problema per tutti noi sarà cosa fare dopo senza sfigurare!».
Il terzo capitolo è anche il più dark e addirittura il più autoriale, e fa un pesante ricorso all’elettronica. «Col compositore Michele Braga lavoriamo sempre molto di repertorio, ma per la prima volta qui abbiamo dei temi musicali incentrati sui personaggi e poi c’è l’opera, che abbiamo scomposto per farla calzare alla coreografia dell’evasione da Rebibbia, con Fresi che fa Il barbiere di Siviglia. Ci piaceva citare quei film in cui c’è da salvare il mondo e guarda caso lo si fa sempre all’opera, con gli spettatori ignari in sala, come in Mission Impossibile – Protocollo Fantasma».
Chiude Pietro Sermonti con una doverosa arringa degna del suo antropologo Andrea De Sanctis: «C’è bisogno in queste paesi di intellettuali, che non è un parolaccia ma viene dal latino “eligere”, ovvero scegliere. Mi piace che qui si tifi per una élite. Si dice sempre: siamo in un paese in cui tutti sanno tutto di tutti. No, loro invece sanno tutto di una cosa alla volta e sono una parte importante della società italiana».
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