«Sognare stanca».
È quel che sospira un impigrito collega (Giuseppe Battiston) allo stralunato Enrico (Valerio Mastandrea), mentre si trovano fermi in mezzo a un lago, i remi che ciondolano nell’acqua, l’imbrunire che li coglie impreparati.
Enrico però non è d’accordo: è tutta la vita che porta avanti un sogno, o meglio, una missione in cui crede fermamente, unico eroe nell’unico genere della sua professione, tagliatore di teste vuote senza che esse se ne accorgano, paladino dei deboli che leva di mezzo l’erba marcia («le cavallette») della classe dirigente per impedirgli di mandare in malora il loro impero. Lui li convince ad andarsene, a cedere le loro aziende, seducendoli – lasciando che si fidino di lui – e poi abbandonandoli alla loro sciocca illusione di liberazione.
È fiero di se stesso, Enrico, eppure non è mai davvero soddisfatto, eppure è perennemente stanco, eppure è solo e la sua determinazione si adombra di un senso di dimostrativa ostinazione quando scopriamo che suo padre è fuggito in Canada dopo una bancarotta («ma comunque era innocente», ci ripete Enrico).
Soprattutto, la sua realtà così rigidamente forzata su un’unica direttiva di visione, viene frantumata all’irrompere dell’imperfezione, per la precisione di due slabbrature.
La prima è rappresentata dalla sbandata Achrinoam (la bella e brava Hadas Yaron, Coppa Volpi a Venezia nel 2012), fidanzata di suo fratello che gliela sbologna; Achrinoam dorme sul pavimento, abbraccia le persone nei momenti meno opportuni, fa di testa sua ed è una mina impazzita nel campo preordinato di Enrico. La seconda variazione ha il profilo triste di due ragazzi rimasti orfani: i loro genitori, proprietari di un’enorme azienda che opera su scala internazionale, muoiono in un incidente stradale e a Filippo e Camilla rimane l’ingombrante carica di dirigenti, di cui contro ogni aspettativa vogliono prendersi la responsabilità. A Enrico il compito di fargli firmare il solito contratto, cedere tutto, licenziare gli sfortunati dipendenti. ma lungi da loro.
Gianni Zanasi, tornato al cinema quasi dieci anni dopo l’inaspettato exploit di Non pensarci, con La felicità è un sistema complesso è un regista in cerca di nuovi sguardi, di nuove prossimità. E a sorpresa si rivela capace di costuire momenti di forza visiva pacata ma efficace, di circoscrivere un’intimità (come nella scena in cui Achrinoam ed Enrico ascoltano la musica in ospedale, o quando Filippo e Camilla si incamminano verso le tombe dei genitori) magnificamente.
Non tutto fila liscio, ma questo perché il film a un certo punto, proprio come Enrico, perde le coordinate, è in costante perlustrazione, si dichiara impotente, si interroga, è irrisolto ma sempre in movimento, a setacciare inedite posizioni di sguardi e prospettive. E forse è inconcludente, ma ci crede.
Ci crede davvero.