È tutta spazzatura. I clienti da rapinare. Le donne da fottere. Il proprio cervello da bruciare. Le istituzioni degli Stati Uniti sulle cui carte – mandati di comparizione, avvisi di garanzia, il Codice Penale – consumare una furiosa pisciata. Il denaro, perfino il denaro, il punto di tutta la faccenda, quando è troppo non sai più come spenderlo e diventa solo carta scolorita.
Quei bravi ragazzi usavano le pistole: figli di emigrati che si costruivano un ruolo sociale infrangendo la stessa morale con cui erano stati cresciuti (in Famiglia), vivevano in una Tragedia. Questa di Jordan “Wolfie” Belfort, broker plurimilionario fuori controllo, invece, una tragedia non è, ma un farsa, un circo: il Luna Park del “Quaaaaaaaaaalude”, ovvero i pilloloni narcotizzanti di cui il protagonista fa indigestione. Questi ragazzi, questi venditori con la cornetta (e il cazzo cazzo cazzo e cazzo: record di “Fuck” per un film di Scorsese) sempre in mano, questi “lupi” che si muovono in branco (e poveri lupi, non so se si meritano l’accostamento), non hanno la pistola: usano il telefono, ti fanno a pezzi senza sapere che faccia hai. E se vi state chiedendo se il Jordan Belfort interpretato da Di Caprio sia “meglio o peggio” del Gordon Gekko di Michael Douglas, ovvero quanti scrupoli abbiano i due in comune, non chiedetevelo più: non giocano nemmeno nello stesso campionato.
Il film di Scorsese è l’anello di congiunzione tra i due Wall Street di Oliver Stone, l’avidità che diventa Legge e Stato: quello che ci viene detto fin dall’inizio è che il crollo dell’economia americana e occidentale è avvenuto alla luce del sole (e dei media: Belfort raddoppiò fama e collaboratori grazie ad un articolo di un importante quotidiano che lo dipingeva come un mostro senza scrupoli). Una questione culturale, una catena di scelte, più che una trovata geniale di qualche esperto della Borsa.
The Wolf of Wall Street in questo senso è la fine di tutto, storia di gente che ha usato l’alta finanza per comprarsi il piatto in cui mangiava e sputarci dentro. Poi per comprarsi il servizio, e sputare in tutti i piatti. E infine distruggere i piatti. Questa apocalisse nichilista e lisergica, pornografica e farsesca, è raccontata con toni corrispondenti. Il film è un overdose: Di Caprio non sta zitto un secondo – ha più monologhi nel film lui che la maggior parte dei suoi colleghi in una carriera – e li cavalca con una gamma “deniresca” di smorfie da far impallidire tutto l’Actors Studio; i dialoghi non finiscono mai, i duetti sfociano spesso nell’improvvisazione (vedi l’esilarante scena sull’aereo con Jonah Hill, o quella con il mentore interpretato da McConaughey); ci sono nudi frontali ogni cinque minuti, e ogni genere di scorrettezza politica che vi venga in mente è dieci volte peggio di come ve l’aspettate. Tutto avviene e si ripete fino alla saturazione: donne droga soldi fuck droga sesso donne fuck “Quaaaaaaaaalude”. Poi, quasi alla fine, un’agghiaciante scenetta familiare di violenza e abuso squarcia il teatrino demente e sposta il senso di tutto il film. Titoli di coda. Applausi.
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Abbiamo visto il nuovo film di Scorsese con il divo americano. E non ci siamo ancora ripresi