Ricky (Kris Hitchen) e Abby (Debbie Honeywood), i protagonisti di Sorry We Missed You, il nuovo film del regista britannico Ken Loach, vivono a Newcastle, nell’Inghilterra del nord. Abby per lavoro si prende cura degli anziani, mentre la vita professionale di Ricky si ritrova a un bivio: la rivoluzione digitale del mondo delle App gli offre la possibilità di diventare un driver freelance. Acquista così un van nuovo di zecca, ma per farlo è costretto a vendere l’automobile di famiglia, con la quale Abby era solita recarsi al lavoro.
Al cinema di Ken Loach, col passare del tempo, si può rimproverare di essere sempre uguale a se stesso, di non schiodarsi dalle sue granitiche certezze, di non scomodare un racconto del mondo che esca fuori dal seminato che questo cineasta inglese ha coltivato negli anni con cura e prolificità. Il suo è un cinema civile talvolta dal respiro corto, indubbiamente retorico e schematico a larghi tratti, ma sta di fatto che nessun altro ha raccontato con la sua ostinazione la condizione operaia e i sentimenti e i bisogni della working class.
Il suo ultimo film, con cui torna in concorso per l’ennesima volta al Festival di Cannes dove ha già vinto due Palme d’oro (nel 2006 con Il vento che accarezzava l’erba e nel 2016 con Io, Daniel Blake) è uno spaccato familiare vibrante e sentito, che prende di petto il dramma dell’inconsistenza del lavoro di oggi e non le manda a dire ai colossi e alle multinazionali. Il protagonista si ritrova a poter lavorare in proprio per conto per una grossa azienda, ma il fatto che il pagamento del furgone sia a carico suo la dice già lunga: la promessa di una presunta libertà fa rima, manco a dirlo, col baratro del precariato.
Ed è così che Ricky si ritrova a perdere di vista se stesso, prima di tutto, e anche i suoi affetti. “Che cosa ci stiamo facendo?”, dice sgomento alla moglie quando il film ha già raggiunto il suo climax emotivo e si fa all’emozionante finale. A gravare sulla sua situazione c’è anche il rapporto non facile coi figli: Liza, undici anni, che non riesce ad addormentarsi e fa la pipì a letto, e Seb, adolescente turbolento che salta la scuola e non crede che l’istruzione possa procurargli un’occupazione. Ricky peraltro è di Manchester e si ritrova a vivere in una città che non è la sua, con un cliente tifoso del Newcastle che gli ricorda pure la sonora scoppola inflitta dalla squadra locale al suo United, sconfitto ben 5-0 il 20 ottobre del 1996 (con tanto di autocitazione in riferimento a Il mio amico Eric, film di Loach con protagonista il celebre e controverso talento francese dei Red Devils Eric Cantona).
Quello tratteggiato da Loach è un microcosmo familiare che si fa specchio di una società già alle prese da tempo con la perdita di ogni certezza: una fessura minuscola dalla quale spiare il caos del presente. Il regista l’ha girato in sequenza, com’è sua abitudine, e come spettatori vediamo le tensioni dei personaggi esplodere sullo schermo man mano che la storia va avanti, immersa in una fotografia dai toni grigi e dimessi da provincia inglese profonda e graziata dalle ottime performance degli attori, che parlano con accento strettissimo e gergale e hanno addosso, come spesso accade col cinema di Loach, una verosimiglianza che mette i brividi, una scarica di umanità che intende coinvolgere lo spettatore da capo a piedi, portandolo ai immedesimarsi (e a commuoversi, e a indignarsi) senza troppi mezzi termini e, va detto, con alcune facili scorciatoie.
A questo tipo di cinema si può obiettare l’assenza di ulteriori prospettive dialettiche, l’appiattimento sul riconoscimento facile, ma è anche vero che la produzione di “Ken il rosso”, come in molti chiamano Loach, rimane un antidoto potente e di questi tempi perfino irriproducibile per tenere accesa la luce su una porzione di cittadini di cui il mondo politico ed economico e le Sinistre istituzionali sembrano da tempo essersi consciamente dimenticati.
L’epilogo corre il rischio di esplicitare troppo (Ricky in bicicletta passa vicino a un cassonetto con scritto “domestic waste only”, per dire), ma in quest’immersione in un privato rabbioso e commosso c’è sempre la temperatura emotiva corretta, la giusta distanza, una fragilità dai contorni lividi e sommessi che porta il cuore a sussultare la mente a riflettere, in un tempo in cui tale istituzione vacilla terribilmente, sul valore della famiglia e su quanto, nonostante tutto, venga prima di ogni altra cosa.