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Stanley Kubrick e il “perverso” viaggio dell’eroe

Una lettura non convenzionale del capolavoro Arancia Meccanica ci mostra come il percorso del protagonista Alex Delarge ricalchi quello dei grandi miti teorizzato da Vogler e Campbell, ma in modo completamente sorprendente

Stanley Kubrick e il “perverso” viaggio dell’eroe

Una lettura non convenzionale del capolavoro Arancia Meccanica ci mostra come il percorso del protagonista Alex Delarge ricalchi quello dei grandi miti teorizzato da Vogler e Campbell, ma in modo completamente sorprendente

Le poche parole che Quentin Tarantino ha speso su Stanley Kubrick, e su Arancia Meccanica in particolare, riguardano l’ipocrisia che il regista di Django Unchained ascrive all’uomo che ha diretto 2001: Odissea nello spazio.

Secondo Tarantino, infatti, Kubrick è un regista che realizza un film violento per dire che i film violenti fanno male. Nemmeno Malcolm McDowell ha parole gentili per l’uomo che lo ha reso eterno, ma per motivi molto più venali: stando alla sua versione, infatti, pare che Kubrick non abbia mai diviso i guadagni derivati dagli incassi del film con lui, come da contratto. Discorso analogo per Gene Kelly, che sembra non si sia mai visto accreditare il compenso per lo sfruttamento della sua Singin’ in the Rain. E, se vogliamo dirla proprio tutta, neanche Anthony Burgess, lo scrittore del romanzo di cui il film di Kubrick è un parziale adattamento, ha speso parole gentili nei confronti del regista, sia per questioni economiche – gli unici soldi che Burgess ha visto sono stati i cinquecento dollari (!) ricevuti per i diritti – sia per questioni più artistiche: Kubrick si è infatti basato sull’edizione americana del romanzo, priva dell’ultimo capitolo, che prevedeva una redenzione di Alex e dava un punto di vista fortemente morale a tutta la storia. A detta del regista, quel capitolo andava ritenuto come un «extra non necessario, poco convincente e incoerente con il resto del romanzo».

Per onestà intellettuale bisogna dire che Burgess disconobbe il suo stesso scritto in senso assoluto, specie dopo le molte polemiche suscitate dall’adattamento cinematografico (e che dovette affrontare da solo, visto che Kubrick decise di non intervenire in quella discussione). Per vendicarsi, lo scrittore realizzò un adattamento teatrale del suo libro, un musical, in cui appariva un personaggio con le fattezze di Kubrick, che veniva malamente preso a calci fuori dal palcoscenico. Ora, è probabile che dietro a queste storie ci siano molte verità, ma contano qualcosa rispetto alla qualità di Arancia Meccanica? No. Fortissimamente, no. Anche se Kubrick fosse stato un orco, il suo film rimarrebbe comunque un capolavoro della storia del cinema. Ma non mi dilungherò su questo punto: il mondo è zeppo di saggi che analizzano questa pellicola inquadratura per inquadratura e non serve che io aggiunga altre parole a riguardo. Quello che invece mi interessa sottolineare è un aspetto non così trattato nell’analisi di questo film, ovvero il lavoro consapevolmente iconoclasta che Kubrick fa su una struttura narrativa tanto amata (quanto abusata) dal cinema hollywoodiano, quel cammino dell’eroe, ben codificato e analizzato da Christopher Vogler e Joseph Campbell, e poi trasformato in una sorta di liturgia religiosa da Robert McKee.

Uno schema che per la narrazione americana è quasi un testo sacro da rispettare religiosamente e che è alla base tanto del mito di Re Artù quanto di quello di Luke Skywalker, tanto di Pete “Maverick” Mitchell quanto di Neo. Il cammino del predestinato, la chiamata del fato, il rifiuto, l’accettazione, le prove da superare, la sfida finale, il sacrificio e il trionfo. Tutto questo Kubrick lo conosce benissimo e si diverte moltissimo a pervertirlo, mettendo nel ruolo dell’eroe del mito il suo Alex e facendone “il prescelto”, eletto dai suoi compari come capo, poi favorito dal prete che lo prende a cuore, in seguito selezionato per la Cura Ludovico e, infine, riconosciuto come eroe e martire, capace di salvare la società. E proprio come l’eroe dai mille volti, anche Alex deve affrontare le dure prove che il destino gli pone davanti: la polizia, il tradimento dei suoi compagni, la prigionia, il martirio, l’impotenza. Fino a quando, una sfida dopo l’altra, superato anche l’estremo sacrificio, Alex rinasce a vita nuova, come fosse Gesù Cristo. Più o meno.

Se si dovesse sovrapporre lo schema teorizzato da Vogler e Campbell al percorso fatto da Alex, si scoprirebbe che sono perfettamente coincidenti, e se per scrupolo dovessimo inoltre dare uno sguardo a come secondo McKee sia giusto costruire una struttura in tre atti per il cinema, anche il quel caso il lavoro sarebbe perfettamente aderente al canone. E questo ci fa capire che magari Stanley Kubrick non era una “brava persona”, ma di sicuro sapeva come farsi una bella risata alle spalle del sistema.

3 MOTIVI PER DEFINIRLO UN CLASSICO

– LA REGIA E LO SCRIPT DI KUBRICK

– LA FOTOGRAFIA DI JOHN ALCOTT

– IL MONTAGGIO DI BILL BUTLER

– L’INTERPRETAZIONE DI MALCOLM MCDOWELL

– LE MUSICHE DI UN CERTO “LUDOVICO VAN”

© Warner Bros., Polaris Productions, Hawk Films (3)

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