Gomorra – La serie è il primo serial italiano che richiede uno slittamento critico, come già accade da tempo con quelli americani, inglesi e francesi: è prodotto per la tv, ma al cinema funziona anche meglio. Me ne rendo conto per la prima volta mentre assisto alla scena dell’agguato nel bar, nell’episodio pilota. Mi trovo in una multisala romana, dove Gomorra viene mostrato in anteprima alla stampa, e quando partono a sorpresa i primi colpi del mitra mi salta il cuore in gola. Ma impressionanti sono anche le riprese notturne di Napoli, gli inseguimenti stradali, l’assalto al deposito. Ispirato alla prima faida di Scampia raccontata nel libro omonimo di Roberto Saviano, il kolossal prodotto da Sky, Cattleya e Fandango è diviso in dodici episodi, che raccontano gli avvenimenti nella prospettiva della famiglia Savastano, impegnata in una battaglia per il controllo del territorio con i Conte, e al cui comando si alternano il boss Pietro, la moglie Imma e infine il figlio Gennaro. Lo showrunner (per dirla all’americana), ovvero il supervisore artistico, è lo stesso di Romanzo Criminale, Stefano Sollima, che stavolta si alterna alla regia con Francesca Comencini e Claudio Cupellini. «Il progetto era delicato. Volevamo una serie con un racconto fortemente orizzontale: si tratta dell’epopea criminale di una famiglia», mi spiega. «Ma allo stesso tempo in ogni episodio c’è un punto di vista preciso su quanto accade. E quindi mi sono detto che un modo per rispettare la complessità della storia e del romanzo di Saviano sarebbe stato affidare i vari punti di vista a registi diversi, cioè a sguardi diversi».
Sguardi diversi significano anche stili diversi?
«Assolutamente no. La differenza è nella prospettiva con cui si racconta il personaggio. Stilisticamente è molto omogeneo».
30 settimane di riprese.
Com’è lavorare così a lungo con lo stesso gruppo di lavoro?
«Lost in Scampia, praticamente! È stato un po’ più lungo di Romanzo Criminale: in quel caso si è trattato di 28 settimane. Lì c’era la difficoltà del racconto d’epoca, con le sue regole; qui dell’approccio a un territorio come quello compreso tra Scampia e Secondigliano dove ci siamo presentati e poi spostati con una troupe non certo invisibile. Io mi sono trasferito lì per quasi un anno».
Se non sbaglio, hai detto di aver affrontato inizialmente questo “trasloco” con un pizzico di timore.
«Innanzitutto bisogno separare il grosso della comunità locale, senza il cui appoggio sarebbe stato impossibile terminare il progetto, dalle poche persone che magari chiedono e ottengono l’accesso ai media per manifestare un disagio, o addirittura per fini promozionali».
Di chi parli?
«Be’, è ovvio che un progetto come questo può dare fastidio non soltanto ai camorristi, il che è normale, ma anche ad alcune associazioni che operano sul territorio e sono comprensibilmente stufe di vederlo associato a questo tipo di immagine. Lo stesso vale per alcuni cittadini. Ma, credimi, si tratta di poche persone, di fronte a migliaia che nell’arco di un anno hanno collaborato come attori, comparse o parte della troupe. In particolare, ogni volta che giravamo in un condominio usavamo come figuranti le persone del posto». […]
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(Foto di Emanuela Scarpa)
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