Steven Spielberg si è raccontato a ruota libera in una lunga e densa conversazione trasmessa oggi a ora di pranzo, in streaming e in diretta, dagli studi del quotidiano La Repubblica. Insieme a lui c’erano il direttore della testata Mario Calabresi e la webstar Frank Matano, che l’hanno stimolato e pungolato permettendogli di toccare diversi punti, dai suoi esordi all’ultimo film, Ready Player One (qui la nostra recensione senza spoiler), passando per le tante pagine memorabili di una carriera irripetibile.
Spielberg, dal canto suo, ha parlato molto, del tutto a suo agio, col brio fanciullesco e l’ironia accomodante che chi segue le sue interviste e osservazioni ha imparato, negli anni, a conoscere bene. Questo grande, grandissimo regista è diventato col passare del tempo e in maniera sempre più inequivocabile il più poetico e lucido affabulatore della sua generazione, un nome che ormai coincide totalmente con la nozione di epica e di stupore, in senso non solo cinematografico. Il cinema di Spielberg è probabilmente il fondamento della nostra immaginazione condivisa, la forma più appagante e più nobile di cinema commerciale (e «commerciabile», direbbe François Truffaut) ancora oggi concepibile.
E non è affatto un caso, dunque, se il suo ultimo Ready Player One, tratto dall’omonimo romanzo di Ernest Cline, è un film così definitivo non solo sulla nozione di intrattenimento partecipato ma anche sull’irreversibilità degli avatar digitali che intrecciano e determinano sempre più da vicino le nostre esperienze. Per non parlare delle pratiche affettive e quotidiane che affidiamo ogni giorno ai social network, senza distinzione alcuna tra dati sensibili e preferenze di gusto, in un unico vortice di trasparenza, senza filtri e senza più veli: un’esperienza (videoludica?) su scala globale, dove ciò che cerchiamo e le informazioni che forniamo coincidono con ciò che siamo.
«I personaggi del mio film nel mondo reale non si erano mai incontrati, mentre in quello virtuale si conoscevano eccome. L’idea che ci fossero mondi così vicini l’uno all’altro mi affascinava. La teoria delle stringhe e dei mondi paralleli mi hanno sempre rapito – ha detto Spielberg in apertura – le storie sono favole di ammonimento, ci parlano di quello che siamo come esseri umani e come persone. Nel film emerge che il mondo virtuale è molto bello, ma occorre anche prendersi una pausa di tanto in tanto. Gli amici dei miei figli vengono a casa, ma poi stanno su Instagram, Snapchat e praticamente nemmeno si parlano. Anch’io però sono dipendente dallo smartphone, prima di venire qui ho dato il mio telefono alla mia assistente altrimenti avrei dovuto resistere alla tentazione di tirarlo fuori mentre parlavamo! Ormai non è più una questione di sfida a chi tira fuori prima la pistola, come nei western di un volta, ma a chi è più veloce a rispondere al telefono!».
Ma un regista, come Spielberg, come fa a sapere qual è il tassello giusto per portare avanti la sua filmografia? «Il film sceglie me, non sono io a scegliere il film. Magari c’è un film orfano che mi sceglie, ma fare un film da produttore o da regista è qualcosa di molto diverso. Se sto due o tre anni su un progetto quel lavoro deve aver toccato alcuni pulsanti importanti su di me. Riguardo a Ready Player One posso dire di aver un buon rapporto coi videogiochi, gioco ad Assassin’s Creed per esempio».
Sui social, invece, Spielberg è molto più moderato e defilato. «Seguo molto i social media per quel che riguarda le news, ma non ho Instagram, Twitter, Snapchat, non ho account social come i miei figli. Ho fatto questo film per voi che siete dipendenti dai social, mentre io dipendo dal mio telefonino solo per le notizie. Realizzando Ready Player One ho pensato che ci dovesse essere un messaggio nel film, ovvero: non c’è niente che possa sostituire il contatto tra due esseri umani. Il futuro sarà ancora più controllato dalle grandi multinazionali della comunicazione, che creeranno un enorme gruppo o, non so, si fonderanno, ma in ogni caso saranno loro a determinarlo».
Quando Calabresi gli chiede perché, nonostante questo sia il secolo con meno malattie e disagi, i film ambientati nel futuro lo descrivono sempre come fosse il Medioevo, la risposta di Spielberg scomoda il più classico dei generi cinematografici americano, anche se il ponte diretto è con l’oggi. «In America abbiamo il genere noir, l’ho fatto anch’io in qualche modo mostrando un futuro pericoloso in Minority Report, dove potevi prevedere i reati di qualcuno prima che li commettesse. Oggi mi preoccupano moltissimo i pubblicitari del web, che sanno tutti di noi senza nemmeno conoscerci. Però questo è anche un anno spartiacque, dove le donne grazie a Internet stanno trovando la loro voce».
«Devono strappami il film dalle mani, dopo che ho vissuto insieme a lui per anni e per mesi non vorrei lasciarlo andare e non lo faccio finché gli studios non mi dicono: guarda, il film deve uscire! – dice zio Steven a proposito delle sue lavorazioni – Quando faccio un film è come avere un figlio, per questo non posso dire qual è il mio film che preferisco. Quando un mio film esce è come se tutti voi diventaste genitori adottivi di mio figlio! Però non cerco mai me stesso su Google per cerca le reazioni ai miei film, non scrollo i commenti su internet…».
«Mentre stavo lavorando a Ready Player One mi è arrivata la sceneggiatura di The Post e ho pensato che, data la situazione della stampa in rapporto al potere di oggi, fosse estremamente attuale e che dovevo farlo – continua Spielberg – con Maryl Streep e Tom Hank ci siamo detti: non faremo i soldi forse, ma faremo qualcosa di estremamente utile alla causa del nostro tempo. Ho tanti amici, tanti parenti, ma nelle pause tra un film e l’altro, quando non so ancora cosa voglio dirigere dopo, mi sento un po’ come un’isola. Mi è successo un po’ di volte e non è bello».
Ready Player One, il suo ultimo film, è anche e soprattutto un film sugli anni ottanta. «Sono stati un decennio di grazia, senza grosse controversie, l’economia era buona, tanti registi volevano intrattenere, avevamo i Duran Duran, i Van Halen, i Bee Gees. Mi sono divertito più negli anni ’80, quando è nato mio figlio e ho fondato la Amblin, la mia casa di produzione, ma nel ’70 ho conosciuto la donna della mia vita. E’ vero anche quello che dice Brian De Palma: mi piace più il jazz che il rock ’n’ roll, da giovane ho avuto modo di ascoltare tantissimi performer jazz e sono cresciuto ascoltando jazz e musica classica, mia mamma suonava il piano. Se vado in un jazz club faccio quello che fa Woody Allen e mi metto a suonare il clarinetto!».
Non può mancare, avviandosi alla conclusione, qualche aneddoto sui Movie Brats, quel gruppo di registi che cambiò la storia della New Hollywood (Spielberg stesso ma anche Coppola, Lucas, Scorsese, De Palma.«Francis (Ford Coppola, ndr) beve molto vino perché lui guadagna una fortuna producendolo, ma in quella foto che ci mostra tutti insieme tutti gli altri non sono ubriachi, garantisco bevevamo acqua! La mia amicizia con loro è iniziata con Coppola, mi ha presentato George Lucas negli anni ’60 in una competizione universitaria con le facoltà di cinema coinvolte. Io ero a Long Beach e Lucas vinse il primo premio con un corto fantastico, Electronic Labyrinth, non potevo credere che uno studente avesse fatto un cortometraggio così bello, era fantastico. Mi hanno presentato George e siamo diventati subito buoni amici, ancora oggi lo siamo. Martin Scorsese credo di averlo incontrato nel 1967 se non sbaglio, faceva ancora l’insegnante e non aveva nemmeno iniziato a dirigere! George Lucas è invece un comico, magari non si capisce ma è una persona divertentissima, anche senza vino!».
Spielberg è in Italia per ricevere il David di Donatello alla carriera, ma non è certo la prima volta che mette piede nel Belpaese:«Ho avuto modo di vedere Michelangelo Antonioni sul set di Zabriskie Point standoci di persona come ospite: il cinema italiano ha fatto miracoli per il mondo. Il lungo che preferisco in Italia è Firenze, l’ho conosciuta tramite mia figlia, tanti miei amici si sono sposati lì e praticamente ormai facciamo avanti e indietro per i matrimoni! Roma invece è forse la città più ricostruita da Hollywood, è la città de Il Gladiatore e conserva la sua storia: questo non succede nel mio paese. Noi prendiamo un bulldozer, abbattiamo tutto e costruiamo un grattacielo. Qui invece la storia è rispettata».
La penultima battuta significativa è per i genitori e per un film molto speciale che ha segnato la storia del cinema. «Ho perso mia mamma l’anno scorso a 97 anni, mia padre invece ne ha 101 ed è stato il mio primo produttore: abbiamo fatto pagare un biglietto simbolico da un dollaro per la prima proiezione di un mio corto. Sono tanti i film che avrei voluto fare: uno di questi è Il cacciatore di Michael Cimino, uno dei miei film preferiti, ma non sarebbe stato lo stesso successo che è stato se l’avessi fatto io e non Michael. I cineasti devono fare il loro genere di film, lui era nato per raccontare quel film, era il suo destino immergersi in quella storia da stress post-traumatico così incredibile. Lo amo tantissimo».
Il momento di gloria conclusivo, però, è per Frank Matano, che chiede a Spielberg una battuta per promuovere il suo film in uscita, dal titolo a dir poco surreale, Tonno spiaggiato: «Deve aggiungere i denti al tonno – risponde Spielberg allo youtuber con l’arguzia e la chiosa che solo il regista de Lo squalo può permettersi – i denti sono commerciali. Non se sia esattamente una trota o un’orata, ma se ottiene un incrocio tra un tonno e un barracuda andrà sicuramente benissimo! Deve fare paura!».
Fonte: Repubblica
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