Nicole (Scarlett Johansson) e Charlie (Adam Driver) un tempo erano felicemente sposati. Lei, ex star di un film giovanilistico intitolato All Over the Girl, aveva lasciato perdere le sirene di una probabile ascesa hollywoodiana totalmente alla sua portata per seguire il marito e recitare nelle sue produzioni teatrali off-Broadway. Insieme hanno anche cresciuto con amore il loro unico figlio, Henry. Adesso, però, tutto è cambiato: il loro divorzio è imminente, gli strascichi del passato difficili da superare i rispettivi avvocati (Laura Dern e Ray Liotta) più spietati e cinici che mai nel peggiorare i difetti di entrambi per averla vinta.
Cullato dalla malinconia e dalla raffinatezza di sempre, il cinema di Noah Baumbach continua a non sedersi, a evolversi, a spiazzare con traiettorie imprevedibili. Ne è una dimostrazione lampante il suo ultimo lavoro, Storia di un matrimonio, presentato in Concorso a Venezia 76: il racconto di un legame tra due creativi che assume suo malgrado i contorni di un dramma giudiziario costellato di rabbia scomposta, recriminazioni a cuore aperto ma dettate dalle viscere, rimpianti senza ritorno. Un tema che il cineasta, punta di diamante dell’indie newyorkese, aveva già affrontato nel suo film fino a oggi più bello, Il calamaro e la balena, ispirato alla separazione dei genitori, e che trova nella vicenda interpretata da Adam Driver e Scarlett Johansson l’approdo senza ombra di dubbio più maturo e misurato della sua carriera.
Un piccolo grande gioiello, che cesella scrittura millimetrica e atmosfere toccanti con precisione chirurgica. Si parte da un sorprendente doppio monologo iniziale con voce fuori campo, catalogo affettuoso di una quotidianità condivisa, per poi intavolare una radiografia impietosa, ma non per questo non empatica, di ciò che chiamiamo famiglia. Delle sue fragilità e storture, dei suoi inciampi e dei tanti bisogni reciproci e spesso disattesi che si tenta di soddisfare quanto si decide di imbarcarsi in questa sfida titanica con un’altra persona.
L’intelligenza della sceneggiatura fa il paio con l’equilibrio della regia, colloquiale e distesa, alla Woody Allen, per intenderci. Sempre al servizio di una fusione di dolore e amore da groppo in gola, dove non si capisce mai comincia l’uno e dove finisce l’altro, e di un affresco minimale e universale graziato dalle meravigliose interpretazioni, cariche di sottigliezze, di Driver e della Johansson. Da loro due Baumbach tira fuori un’alchimia miracolosa, di quelle che si vedono di rado e che è un privilegio ammirare. Magari perdendosi in uno di quei tantissimi primi piani – indifesi, accecanti e bergmaniani – che a sorpresa invadono lo schermo, doppiamente appaganti proprio perché inaspettati, repentini, non richiesti (per tacere di una delle più vibranti scene di litigio viste di recente nel cinema di ogni latitudine).
E se Marriage Story è un film che ha la sapienza di accucciarsi accanto ai suoi due personaggi raccogliendo i cocci delle loro esistenze, scoprendone i lividi e le tenerezze più nascoste e inconfessabili, allo spettatore non rimane che il piacere amarissimo e coinvolgente di immergersi in un flusso di commozione, da spiare con la stessa naturalezza spudorata e mai bieca dell’occhio del regista, intima e sommessa per necessità e mai per posa. La stessa sincerità con cui Marriage Story ci suggerisce soffusamente un richiamo alla vita che, come il finale insegna, ha bisogno soprattutto di gesti ordinari e inattesi per gettare il cuore oltre l’ostacolo dei pianti narcisisti, del campionario di nevrosi buffe e ridicole, degli tagli fisici e degli schiaffi morali (la stessa consapevolezza cui, dopotutto, sembra giunto anche il cinema di Baumbach). Di ciò, in definitiva, che inevitabilmente si finisce col lasciarsi alle spalle, mentre ci si mette in cammino verso nuove strade, poco importa se a New York, Los Angeles o altrove.
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